Le dichiarazioni di Gioacchino Pennino su Calvi e l’Ambrosiano

Parimenti, Giocacchino Pennino ha confermato che Calvi gestiva il denaro di Cosa Nostra, che il banchiere non aveva onorato l’impegno preso con Cosa Nostra, che non era stato più nelle condizioni di restituire il denaro e che l’organizzazione, per il tramite di Vitale, si stava attivando per recuperarlo. In particolare, ha articolato il suo racconto nei termini che seguono. Aveva appreso da Bontate e, soprattutto, da Giacomo Vitale che i proventi illeciti delle famiglie di Santa Maria del Gesù, di Uditore-Passo di rigano, le quali facevano capo, rispettivamente, a Bontate e a Inzerillo, erano stati convogliati nelle holding di Sindona. Erano stati fatti confluire anche soldi di altre famiglie, collegate alle due, ma che non sapeva indicare. Nella seconda metà degli anni ’80 aveva appreso da Giuseppe Marsala, il cui diminutivo era “u Pinuzzu”, e da Giacomo Vitale, il quale, in quegli anni, si era recato al suo laboratorio di analisi cliniche, in quanto “doveva recuperare i loro capitali, i capitali fuori famiglia mafiosa, della sua famiglia di sangue”. Costoro lo avevano reso edotto del fatto che Sindona ”quando vi fu il crack delle sue banche (…) canalizzò (…) il denaro presso il Banco Ambrosiano di Calvi”.

Egli era a conoscenza del fatto che il Banco Ambrosiano “aveva nel suo statuto delle facoltà di gran lunga superiori” a quelle degli altri istituti. Gli era stato detto che vi erano dei “vantaggi legati alla gestione del denaro”, ma non poteva specificare quali perché non era un tecnico. Sindona aveva degli “impegni di carattere economico perché deteneva i soldi” delle famiglie mafiose e “quando ebbe il crack, li dovette restituire”. Una parte era riuscito a restituirli e la restante la “canalizzò” nel Banco Ambrosiano di Calvi… che era pur sempre di origine cattolica”. Sindona aveva rispettato i suoi impegni con Cosa Nostra. Sempre dalle stesse fonti aveva appreso che Calvi aveva preso degli impegni con appartenenti a Cosa Nostra e che “non aveva onorato.. l’impegno preso” e “non aveva restituito il denaro che… gestiva”. Calvi aveva ottenuto delle risorse finanziarie tramite lo IOR. Lo Ior è l’Istituto opere religiose, la banca del Vaticano, all’epoca diretta da mons. Marcinkus, e Calvi gestiva anche parte delle finanze di origine vaticana.
Giacomo Vitale si era recato da lui perché voleva sapere se fosse “nelle condizioni di reperire Licio Gelli”. Egli non era nelle condizioni di farlo e gli aveva risposto che non aveva la possibilità. Lo scopo che “si prefiggeva era quello di rientrare del denaro che era stato consegnato a suo tempo al banco Ambrosiano di Calvi” per rientrare “in possesso”. Agiva per sé, per la sua famiglia di sangue e per la famiglia di cui faceva parte. Vitale si era rivolto a lui perché “sapeva che era massone e che aveva avuto la possibilità di conoscere un po’ tutti i massoni dell’epoca”. Tali indicazioni sono state in buona sostanza ribadite nel prosieguo della sua deposizione in sede di controesame della difesa: riferiva che Vitale gli aveva dato l’impressione che cercasse Gelli per poter recuperare il denaro del banco Ambrosiano, e gli aveva detto che i loro capitali erano nel Banco Ambrosiano. Invitato a precisare se gli avesse dato l’impressione o se glielo avesse detto che vi era un nesso tra la ricerca di Gelli e il denaro del Banco Ambrosiano, ha sottolineato che erano trascorsi circa vent’anni e non poteva avere una visione precisa “di problemi” che non lo interessavano. Aveva ascoltato “mal volentieri fatti” che non lo riguardavano.


Gli veniva ricordato che, in data 10.2.2004 aveva dichiarato: “Nella circostanza di questo… di questo colloquio mi disse anche che cercava di mettersi in contatto con Licio Gelli per poter recuperare il denaro che ormai Calvi non poteva più restituire”. Pennino ribadiva che Vitale “doveva recuperare i soldi del Banco Ambrosiano”. (…) Non gli aveva spiegato cosa c’entrasse Gelli con il denaro di Calvi, con quali modalità Sindona aveva trasmesso i soldi a Calvi, quale fosse il quantitativo di denaro, e se la mancata restituzione di soldi da parte di Calvi fosse stata preceduta da richieste di restituzione. Egli si limitava ad ascoltare.
Aveva avuto per la prima volta notizia che i mezzi finanziari affluivano nelle holding di Sindona nella metà degli anni ’70. Sindona era un banchiere che si diceva operasse tanto in Italia quanto in Svizzera e all’estero, ove agiva con la Franklin Bank. Il fatto che il denaro confluisse nelle holding di Sindona lo aveva saputo da Bontate e da Vitale, nei momenti di frequentazione. Vitale non era un uomo d’onore, mentre Bontate era il capo mandamento della famiglia di Santa Maria del Gesù ed era suo coetaneo, entrambi erano nati nel 1938, e da sempre lo aveva frequentato. Entrambi si recavano nella casa di suo zio Gioacchino Pennino, che fu una delle persone più rappresentative di Cosa Nostra.
Aveva appreso soprattutto da Giuseppe Marsala – uomo d’onore della famiglia di Santa Maria del Gesù, che nel periodo in cui aveva avuto rapporti con lui ricopriva un ruolo di comando e di coordinamento in quella famiglia – che parte dei capitali consegnati a Sindona erano poi confluiti nelle holding di Calvi. Quando si era verificato il crack finanziario di Sindona aveva restituito una parte dei capitali a Cosa Nostra e la restante l’aveva dirottata, “certamente con il placet di coloro che gli avevano affidato il denaro al Banco Ambrosiano di Calvi”.

Estratto dalla requisitoria del pm Tescaroli riportata nel libro “Dossier Calvi”.

“I soldi: da dove venivano, chi li procurava” – L’Espresso 10.11.1974

Chi finanziava i piani eversivi di Junio valerio Borghese? Ecco uno degli argomenti sui quali attualmente stanno indagando, a Roma, il sostituto procuratore Claudio Vitalone e il giudice istruttore Filippo Fiore. Si parla anche di prossimi avvisi di reato per noti industriali e finanzieri genovesi. Cerchiamo di vedere quali sono le fonti cui si ispirano i magistrati.
Come prima cosa, i giudici romani hanno riesumato un breve rapporto del SID (tre cartelle dattiloscritte), che risale al 1969. Esso contiene il resoconto di tre riunioni, tenutesi fra aprile e maggio dello stesso anno, nella villa dell’industriale Guido Canale, in via Capo Santa Chiara, a Genova. Alle riunioni, oltre al padrone di casa, parteciparono fra gli altri: gli armatori genovesi Alberto e Sebastiano Cameli, l’avvocato Gianni Meneghini (che ha difeso Nico Azzi), il direttore dell’Imi di Genova Luigi Fedelini, il dirigente della IBM, Niccolò Cattaneo della Volta; e poi Gian Luigi Lagorio Serra, il costruttore Giacomo Berrino, presidente del Genoa, l’agente marittimo Giacomo Cambiaso e Giancarlo de Marchi, tesoriere della Rosa dei Venti. In tutto una ventina di persone.
Borghese – che presiedette la prima di queste riunioni – dichiarò ai convenuti che era già in piedi “un’organizzazione militare di professionisti, pronta ad agire per impedire con la forza l’avvento al potere dei comunisti e per instaurare un regime di tipo gollista”. Durante la terza riunione, l’ingegner Fedelini, che aveva assunto la carica di delegato provinciale del Fronte Nazionale, precisò che il Fronte era articolato in due settori specializzati: “quello militare, con il compito di occupare e presidiare le città principali, e quello civile, con la funzione di orientare l’opinione pubblica”. Sembra accertato, ma da fonte diversa del SID, che a seguito delle tre riunioni, industriali e notabili liguri sottoscrissero circa 100 milioni. Il fatto che Borghese si rivolgesse direttamente ad esponenti del mondo industriale e finanziario può trovare una sola spiegazione: che cioè i suoi precedenti canali di finanziamento – che lo avevano sostenuto fino al 1969 – ormai non funzionavano più.
Per quale ragione il principe si trova improvvisamente senza fondi per attuare i suoi disegni eversivi? E, ancora, chi lo aveva finanziato fino a quel momento? La risposta a questi interrogativi va cercata neo fascicoli di due altri processi. Il primo (che si è già concluso nel luglio del ’73 con la condanna di tutti gli imputati davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Roma) è quello per il crack avvenuto nel ’68 della Banca del Credito Commerciale e Industriale (Credilcomin) presieduta da Borghese.
Il secondo (iniziato solo il 14 ottobre scorso a Milano) è invece contro otto amministratori della SFI, la Societaria finanziaria italiana, per un fallimento di molti miliardi avvenuto una decina di anni fa. E proprio attraverso le vicende della SFI è possibile ricostruire l’intera storia. Questa società finanziaria si era sviluppata nel ’60 con l’ingresso di alcuni personaggi legati al Vaticano, come Carlo Baldini, o alla DC (Antonio Marazza, Alfonso Spataro, Antonio Cova). Per arricchire il suo portafogli, la SFI acquista da Sindona la Credicomin, cioè la futura società di Valerio Borghese. Servirà per alcune operazioni particolari come il finanziamento dell’agenzia giornalistica Italia.
Due anni dopo, però, alcune speculazioni sbagliate mettono in gravi difficoltà la SFI. Con la mediazione del Vaticano, Baldini riesce a trovare i capitali necessari per avere un po’ di fiato. A portarglieli sono Gil Robles e don Julio Munoz, entrambi legati all’Opus Dei spagnola, ai quali sono stati affidati 10 miliardi di lire da Rafael Trujillo junior, figlio dell’ex dittatore di Santo Domingo. Fuggito dal suo paese, Trujillo ha scelto come suo avvocato a New York Richard Nixon, non ancora presidente degli Stati Uniti ma già buon amico di Michele Sindona.
Nata all’insegna di personaggi così potenti, la trattativa tra la SFI e gli spagnoli non poteva che concludersi rapidamente e bene: cioè la SFI ottiene i 10 miliardi. Il trust porta alla costituzione di due società alla cui presidenza viene chiamato Valerio Borghese. Subito dopo una delle due società, la Ventana, acquista la Credicomin per 3 miliardi e 375 milioni e il principe ne diventa il presidente.
L’operazione di finanziamento è ormai messa a punto alla perfezione: attraverso la SFI e le società collegate, i miliardi di Trujillo passano alla banca di Borghese e svaniscono nel nulla. Sono gli anni in cui si prepara la strategia della tensione (del ’65 è il convegno all’Hotel Parco dei Principi) e i soldi servono ai golpisti: se 2 miliardi vanno all’agenzia Italia, il resto finisce a Borghese e a società fantasma. E quando nel ’65 la SFI crolla e la banca di Borghese è sottoposta ad amministrazione straordinaria, interviene la Privata Finanziaria di Sindona che risarcisce i piccoli creditori e ottiene in cambio dalla Banca d’Italia “anticipazioni e autorizzazioni ad aprire nuovi sportelli”. Già alla fine degli anni ’60 il nome di Sindona viene associato a quello dei golpisti. I magistrati stabiliranno se è soltanto un caso.

“Operazioni sui cambi” – Estratto relazione di minoranza sulla P2

Illustriamo, prima di tutto, a beneficio dei “non addetti ai lavori”, che cosa è una operazione sui cambi. Si tratta sostanzialmente di speculazioni, più che lecite, che vengono attuate soprattutto tra banca e banca: la banca “X” si impegna con la banca “Y” di ritirare presso quest’ultima, di lì a qualche mese, una data somma in valuta (dollari, sterline, marchi e così via) a un prezzo che viene convenuto al momento della stipula del contratto. Che cosa succede, allora, al momento in cui scadono i termini della operazione? Molto semplice: mettiamo che la banca “X” abbia stabilito con la banca “Y” di acquistare, di lì a tre mesi, un milione di dollari al prezzo convenuto di 1.700 lire al dollaro (quotazione attuale). Ebbene, se alla scadenza dei termini il dollaro varrà più di 1.700 lire, la banca “X” avrà fatto un buon affare perché sarà entrata in possesso di un milione di dollari il cui valore risulterà maggiore del prezzo pagato. E ci avrà rimesso la banca “Y”. Se la quotazione, invece, sarà risultata inferiore, ci avrà rimesso la banca “X” (acquirente a 1.700 lire) e ci avrà guadagnato la banca “Y”, venditrice.
Chi gioca partite del genere, naturalmente, deve operare sulla base di complesse valutazioni e previsioni, di natura finanziaria, economica, politica, perché nulla vi è di più mutevole delle oscillazioni dei cambi sui mercati internazionali. Per di più, deve giocare avendo sempre a disposizione, in contanti, o comunque garantite, le somme necessarie per onorare gli impegni presi. Fornita questa spiegazione, veniamo ora alla operazione sui cambi che ci porta a Sindona.
Per operare in questo settore, Michele Sindona aveva costruito la “Moneyrex” (Euromarket Money Brokers), vale a dire una società di intermediazione monetaria, e ne aveva affidato la direzione tecnica a Carlo Bordoni, un tipo poco raccomandabile, già licenziato in tronco dalla filiale di Milano della “First National City Bank of New York” perché, quale responsabile della sezione cambi, aveva abusivamente speculato con il denaro della banca, dirottando i profitti sul suo conto personale e scaricando le perdite sull’istituto di credito. Un elemento, in definitiva, fatto su misura per Sindona che, in fatto di etica e di morale, ha sempre lasciato molto a desiderare. Ebbene, il 17 gennaio 1973, Carlo Bordoni, agendo per conto della “Moneyrex”, stipulò un contratto di compra-vendita di valuta con la “International Westminster Bank” di Francoforte (che fa parte del gruppo “National Westminster Bank” di Londra): dollari contro lire per un ammontare di circa 125 milioni di dollari.
Una tipica “operazione a termine” : con quel contratto, infatti, la “Moneyrex” si impegnava ad acquistare, di lì a sei mesi, tra il 19 e il 31 luglio successivo, 125 milioni di dollari al prezzo convenuto di 601,80 lire. Sempre nella stessa giornata, Bordoni stipulò un contratto identico con la filiale parigina della “First National Bank of Boston”: dollari contro lire, scadenza 19/31 luglio successivo, per un totale di 13 milioni di dollari a 601,80 lire al dollaro. Totale: 138 milioni di dollari del 1973, che, in lire attuali, rappresentano circa 500 miliardi. Ed ora, attenzione: alla data del 17 gennaio 1973, avviare una operazione sui cambi di quella portata, offrendo lire in cambio di dollari, costituiva una autentica pazzia. Il motivo è presto detto. Posto che l’obiettivo era quello di puntare su un aumento del valore del dollaro nei confronti della lira tra il gennaio e il luglio successivo, e quindi, in definitiva su una svalutazione della lira nei confronti del dollaro, si dava il fatto che, all’inizio del 1973, la moneta italiana era considerata una moneta sufficientemente solida, anche perché l’annata precedente (1972) si era chiusa in termini economicamente positivi, con un attivo di oltre 800 miliardi per quanto riguardava la bilancia dei pagamenti, partite correnti.
In altre parole: offrendo 601,80 lire (più spese) per dollaro in data 17 gennaio, Michele Sindona rischiava, il 19 luglio successivo, di pagare 601,80 lire (sempre più le spese) una moneta che, a lume di logica, avrebbe potuto valere alcune lire in meno.
Rimettendoci cosi, date le cifre in gioco, una barca di miliardi. Invece, guarda caso, tre giorni dopo, il 20 gennaio 1973 si verificò un fatto di eccezionale importanza, tale da offrire una logica giustificazione alla operazione sui cambi avviata da Sindona: il governo presieduto da Giulio Andreotti, sulla base di considerazioni di carattere monetario internazionale, decise di abbandonare l’ormai convalidato sistema dei “cambi fissi”, e varò quello del “doppio mercato dei cambi”. In poche parole, il governo Andreotti cessò di sostenere la lira nei confronti delle altre monete e lasciò che seguisse le oscillazioni di mercato: un provvedimento, questo, che venne subito interpretato come premessa ad una inevitabile svalutazione della moneta nazionale. E infatti la conseguenza immediata del provvedimento preso dal governo Andreotti fu che il dollaro, che al 20 gennaio 1973 oscillava attorno alle 600 lire, balzò in pochi giorni a quota 625. Il che, per Sindona, significava, sin dai primi giorni dell’operazione, un guadagno di circa 25 lire moltiplicato per 138 milioni di dollari, vale a dire 3 miliardi e mezzo di lire (circa 20 miliardi di oggi). Sembra quindi logico dedurne che Sindona fosse stato preventivamente informato del provvedimento che il presidente Andreotti stava varando. Il che spiega (e torniamo così ai motivi che ci hanno portato a ricostruire questa complessa “operazione sui cambi”) la facilità con cui Michele Sindona riuscì a ottenere, in quella circostanza, le indispensabili garanzie che gli erano necessarie, nei confronti delle due banche di Francoforte e di Parigi, per stipulare i relativi contratti per un totale, 10 ripetiamo, di 138 milioni di dollari (500 miliardi di lire attuali).

Ma circa le garanzie ottenute saremo più precisi nel quarto capitolo “I dollari facili”. Per concludere intanto questa documentazione sulla “operazione cambi ” condotta da Sindona nel 1973 è necessario aggiungere alcuni particolari che comprovano l’enorme, e misteriosa, disponibilità di mezzi a disposizione del banchiere siciliano in quel periodo.
Va detto, infatti, che quella specifica operazione ebbe dei risultati disastrosi, perché nel primo semestre del 1973, anziché rafforzarsi anche nei confronti della lira, il dollaro subì un tracollo su scala internazionale (per motivi che in questa sede sarebbe troppo lungo specificare), per cui alla data del 19 luglio, Sindona si trovò a pagare, oltre le perdite, anche le grosse somme determinate dall’accumularsi degli interessi. Ma questo insuccesso non lo fermò e, per rifarsi, si gettò in ulteriori operazioni sui cambi per cifre sempre più alte, fino ad un totale raggiunto nella primavera del 1974, di oltre quattro miliardi di dollari. Il che contribuirà non poco a determinare il suo crollo definitivo.

Su Sindona e sull’iniziativa privata

(…) Sindona non è “un finanziere spregiudicato”, che fa politica spregiudicatamente; è semmai un finanziere-politico, è il motore finanziario di un’operazione che è, insieme, economica e politica, e a momenti persino “ideologica”. Insomma il Sindona che , per difendersi, si vanta con gli americani di aver fatto tutto ciò che ha fatto per “salvare l’iniziativa privata” non è un millantatore. E’ uno che ha misurato con la propria esperienza quanto l’esclusivo e sfrenato assalto dell'”iniziativa privata” alla società storicamente determinata che in Italia è uscita dagli eventi 1943-45,  e si è organizzata in repubblica, sia antistorico e illecito. E perciò, naturalmente, ha scelto, in Italia, l’anti-Stato, e l’anti-storia: il potere occulto e la restaurazione. Lo confermerà John McCaffery, il suo complice e amico, scrivendo quel famoso affidavit, indirizzato alle autorità degli Stati Uniti per scongiurare l’estradizione di Sindona in Italia: un documento che sarebbe sbagliato leggere come l’allucinato messaggio di una mente ossessionata dall’anticomunismo. McCaffery non è un malato, che scambia una dichiarazione giurata con un capitolo di storia. Eppure nel suo affidavit, composto di 26 capoversi numerati, si può leggere:
“E’ un dato di fatto storico che il vero collasso dell’economia italiana ha inizio dall’enorme scandalo creato intorno al nome di Sindona e dal collasso provocato della fortezza finanziaria dell’impresa privata che egli aveva costruito”.
E anche: “Quando lo conobbi per la prima volta durante la guerra, La Malfa era l’elemento essenziale, la guida del Partito d’Azione. Il Partito d’Azione era un’organizzazione di sinistra. Le attività parlamentari dei suoi membri, sia nel partito originario sia nei suoi successori, dimostrano la parte che essi hanno avuto nel condurre l’Italia alla sua attuale situazione. Anche se pochi di numero, essi erano fortemente appoggiati. In un parlamento post-bellico, che presto si divise equamente – non fra Destra e Sinistra, ma fra Centro e Sinistra – la loro influenza si tradusse in decisioni dannose per le politiche occidentali e la libera iniziativa in Italia”.
La conclusione è nota: ha ragione Edgardo Sogno, altro “perseguitato” dai comunisti, ad opporsi a questo stato di cose anche se per questo fine ha “parlato con membri della polizia e delle forze armate sul penoso stato del paese e della direzione che stava prendendo”. Anzi, aggiunge McCaffery, “qualunque persona responsabile e patriottica che ne avesse l’occasione lo farebbe. Michele Sindona l’aveva certamente fatto, perché io stesso sono stato presente ad una occasione del genere in un albergo di Roma”. In altre parole: il processo va fatto alla storia degli italiani, a chi li dirige e li ha diretti; e per riportare in Italia il dominio dell'”iniziativa privata” senza i condizionamenti imposti dalla Costituzione repubblicana bisogna ricorrere a tutti i mezzi, ivi inclusa l’eversione. Non occorrono ulteriori dimostrazioni che ogni separazione tra “affarismo” e “finalità politiche”, a proposito della loggia P2, è arbitraria e fuorviante. Semmai, può essere accaduto che le malefatte di Sindona, essendo state scoperte prima del “bubbone” P2, abbiano fatto pensare a uno scandalo finanziario, a cui la loggia di Gelli desse una copertura. In realtà è vero il contrario: l’affare Sindona, come più tardi l’affare Calvi, sono soltanto episodi, risvolti finanziari della manovra a cui era finalizzata l’organizzazione segreta di Licio Gelli. Ossia: per distruggere il “primato della politica”, affermato nell’ordinamento repubblicano come suprema espressione dell’interesse pubblico e generale sugli interessi particolari, Sindona, Gelli, Ortolani hanno bisogno di “riprivatizzare” la politica, con il solo mezzo possibile: “comprarla”. Il “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli si regge su un disegno di fondo: comprare, comprare pezzi di partito, o partiti interi, comprare sindacati, comprare ancora prima l’opinione pubblica comprando giornali, radio e televisioni private. Non è soltanto follia di megalomani. “Il suo obiettivo – ha scritto Cornwell di Sindona – era la creazione del maggiore gruppo finanziario, non solo d’Italia, ma d’Europa” e ci ha ricordato che col primo passo era riuscito a far sedere Roberto Calvi accanto a Evelyn de Rothschild e a Jocelyn Hambro, nel consiglio di amministrazione della Centrale. Si può restare increduli e sconcertati, ma le dimensioni del disegno erano queste, non altre. Si capisce che Sindona, Gelli, Ortolani e in genere il gruppo consapevole di direzione della loggia P2 intendesse “fermare il sole” alla stagione di Nixon, stabilizzare la sua “era”, farla durare indefinitivamente.

Estratto da “Storia della P2”, di Alberto Cecchi

“Adesso la faccio io l’inchiesta sulla P2” – intervista ad Andreotti su L’Europeo 27.12.1982

Gratti lo scandalo e trovi sempre l’onorevole Giulio. Sarà perché è uno dei democristiani più intramontabili, sarà perché la sua è l’immagine stessa del potere, Giulio Andreotti c’entra sempre. Non c’è vicenda scabrosa per la Repubblica che non finisca in una chiamata di correo per lui. Senza, peraltro, che nessuno riesca mai a trovare prove contro di lui. Qualche giorno fa la vedova del banchiere Roberto Calvi ha puntato il dito sostenendo che il marito disse che Andreotti era la mente occulta della loggia P2. E ha proseguito con altre gravi accuse. Secondo molti membri della commissione parlamentare d’indagine sulla loggia P2, Clara Calvi è quantomeno fedele testimone di quanto le confidava il marito. L’Europeo ha preparato un lungo e minuzioso elenco di domande: tutti i sospetti, tutte le stranezze, tutte le coincidenze che potrebbero sostenere la tesi della signora Calvi.

La signora Calvi proclama quello che molti membri della commissione P2 sussurrano: il capo occulto della loggia è lei…
«Ah, davvero? Invece io dico che questo capo bisogna continuare a cercarlo, perché ancora non si è fatto trovare. Voglio fare un piccolo atto di superbia. Vi pare che se mi facessi massone mi accontenterei di una loggia? Vorrei una carica molto più importante».

I collaboratori di Gelli l’hanno infatti definita «il grande babbo».
«Burloni».

La loggia P2 era un cenacolo di mattacchioni o una pericolosa associazione segreta?
«Questo della segretezza è uno degli aspetti che mi hanno più divertito. Ho letto che le iniziazioni avvenivano in un albergo, all’Excelsior. Singolare, no? Devo poi ancora capire se la polemica e le critiche vengono fatte contro persone responsabili di illeciti, o se le accuse sono rivolte alla massoneria in generale. Si dice ora: bisognava accertare se i candidati a cariche dello Stato fossero o non fossero massoni. Fino a due anni fa se un de avesse fatto certe proposte sarebbe successo l’iradiddio».

E tutti gli intrighi di Gelli?
«Già, si è fatta anche la distinzione tra massoni buoni e cattivi. I dirigenti venuti alla ribalta nell’ultimo periodo sembrano però coinvolti nella vicenda Calvi…».

Si riferisce ad Armando Corona, il nuovo gran maestro?
«Il suo sodalizio con quel Carboni (faccendiere di Calvi negli ultimi mesi, ndr) non mi pare proprio il segno di tempi nuovi, di una massoneria riveduta e corretta».

Perché, nel maggio 1981, dopo l’arresto del banchiere Calvi, lei incontrò la moglie Clara?
«Fu la signora a richiedere il colloquio».

Strano però che venisse accompagnata proprio da Giuseppe Ciarrapico, un suo fedele famiglio.
«Ciarrapico era amico di Calvi. Accompagnò la signora in quella veste, certo non su mio incarico». Nega di conoscere Ciarrapico? «Lo conosco come tanta altra gente. Ha un’attività tipografica importante a Cassino».

Clara Calvi già la conosceva?
«Da pochi giorni. Il 14 maggio la incontrai, accompagnata dal marito, a un pranzo al Circolo degli scacchi offerto dal senatore Giacometti. C’era moltissima gente…».

La vedova Calvi la smentisce. Sostiene che vi siete conosciuti molto tempo prima, in casa del finanziere Roberto Memmo.
«Se la signora si riferisce a una cena con la partecipazione dell’ex ministro americano del Tesoro Connolly, non posso escluderlo. Fu uno di quei ricevimenti all’americana, con centinaia di invitati. Certamente non la notai».

I familiari di Calvi sostengono che il banchiere aveva paura proprio di lei. Riferiscono frasi oscure di avvertimento dettegli da lei…
«Falsità. Però che strano: anche il senatore Tremaglia, durante la mia audizione davanti alla commissione P2, ha fatto accenni analoghi. Si riferiva alle registrazioni delle telefonate di Carboni a Calvi».

Si può sapere che cosa dicono quelle registrazioni?
«Nel corso di una telefonata, Carboni direbbe “il nemico è Andreotti”, o cose del genere. D’accordo con il Cardinal Casaroli, avrei impedito a Carboni non so che diavolo di contatti all’Istituto opere di religione. Vicende nelle quali mi guardo bene dall’immischiarmi».

Non è vero che lei confidò alla signora Calvi l’intenzione della Banca d’Italia di mandare i commissari? Che fece anche due nomi di suo gradimento, Bagnasco e Venini?
«Quale poteva essere la mia competenza istituzionale per sapere o addirittura decidere il commissariamento del Banco? La verità è .che la signora si congedò da me ringraziandomi calorosamente. Aveva chiesto consiglio un po’ dappertutto, ma l’avevano snobbata perfino al Banco Ambrosiano».

Se andò così, perché ora la signora le lancia accuse tanto gravi?
«Conosco poco la psicologia della signora. Non so se ha effettivamente dichiarato ai membri in trasferta della commissione P2 quanto si è letto sui giornali».

Dall’intervista televisiva di Enzo Biagi alla signora trasmessa da Rete Quattro si sarà fatto un’idea.
«Non l’ho vista».

Avrà letto il testo riprodotto da «la Repubblica»…
«No. Non mi interessa molto. Comincio a scocciarmi di queste storie. Esiste il segreto istruttorio, a causa del quale non posso conoscere gli atti ufficiali per i quali sono chiamato in causa. Però ci sono membri della commissione che ne discorrono liberamente. La scorrettezza di costoro ha superato ogni limite. Forse, attraverso la signora, qualcuno soffia per alzare polvere politica che oscuri autentiche responsabilità».

Ci sono accuse precise. Per esempio quel miliardo regalato lo scorso Natale da Calvi ad alcuni politici. Tra cui lei…
«Un miliardo è ancora un miliardo, come ai tempi del signor Bonaventura. Lascia tracce. Cerchino nella contabilità del Banco le prove per sostenere queste calunnie».

«Onorevole, stia tranquillo, perché tutta la documentazione di mio marito riguardante i politici è nascosta all’estero»: non le disse cosi Clara Calvi, su suggerimento di Ciarrapico?
«Non mi sono mai sognato di ascoltare frasi come questa».

Il suo asserito disinteresse per il Banco Ambrosiano non convince. Non è forse vero che lei incontrò più volte il finanziere Orazio Bagnasco, diventato poi azionista e vicepresidente?
«Questa è un’altra stupidaggine. Bagnasco è uno che se deve fare affari non ha certo bisogno dei consigli di chi fa politica».

Dopo la fuga all’estero di Calvi si apri una lotta di potere tra Bagnasco e l’altro vicepresidente, Roberto Rosone. Il solito Ciarrapico faceva da mediatore. Che autorità poteva avere se non quella di ambasciatore di Andreotti?
«Interpretazione del tutto gratuita. In quel periodo, tra l’altro, mi trovavo negli Stati Uniti per una sessione dell’Onu sul disarmo».

Appunto. Ciarrapico era il suo fiduciario…
«Ripeto che Ciarrapico godeva della fiducia di Calvi. Forse agiva in quella veste».

Oltre che alla sistemazione del Banco, Bagnasco era interessato alla proprietà del «Corriere della Sera». Chiese il suo aiuto, no?
«Del Corriere in effetti mi sono occupato. In quel momento, tuttavia, il problema del controllo del giornale non era legato all’assetto azionario del Banco».

C’era stato l’interessamento di Carlo De Benedetti, anche lui azionista e vicepresidente del Banco…
«Quella partecipazione azionaria, cosi come quella di Bagnasco, era limitata e non determinante per il destino del gruppo Rizzoli».

Quando e perché incontrò Calvi?
«Dopo essere uscito di prigione venne a trovarmi per ringraziarmi di avere ricevuto la moglie. In precedenza l’avevo visto fugacemente a un paio di pranzi, di cui uno al Circolo degli scacchi, come ho detto. Mi parlò subito del Corriere perché era convinto che i suoi guai fossero cominciati da quando aveva deciso di occuparsi del giornale e del gruppo Rizzoli. Mi raccontò che durante l’inchiesta per reati valutari gli erano state fatte domande sui motivi della nomina alla direzione di Franco Di Bella».

Diede a Calvi dei consigli?
«Anzitutto di evitare lo scorporo del Corriere delle Sera dalla Rizzoli, per non causare una crisi del gruppo editoriale».

Ne è ancora convinto?
«Lo scorporo può essere un punto d’arrivo, semmai. Calvi, comunque, mi parlò delle pressioni politiche molto forti che gli venivano fatte per il Corriere».

Da chi?
«Non fece nomi, e io non glieli chiesi. Crea imbarazzo sapere certe cose».

Ah! E dei guai del Banco non parlò con Calvi?
«Allora non sembrava troppo preoccupato. Era solo convinto di essere vittima di invidie».

Il complotto della finanza laica…
«Anche con Calvi ho cercato di ridimensionare questa distinzione tra finanza laica e non laica, che non credo fondata. Enrico Cuccia, per esempio, sarebbe il capofila dei laici, ma è cristiano ortodosso. Uno dei pochissimi in Italia, credo».

La liquidazione dell’Ambrosiano si sarebbe potuta evitare?
«Ho avuto l’impressione che ci sia stata troppa fretta».

Qualcuno ha voluto la disgregazione del Banco?
«Bisognerebbe conoscere tutti i dati di fatto per fare questa affermazione, e io non li conosco. In ogni caso, perché qualcuno non dà un’occhiata approfondita alle società estere? Non avranno per caso degli attivi, oltre che i passivi? Se si potesse recuperare una parte di questo danaro, ammesso che ci sia, dovrebbe essere restituito agli azionisti. Se poi per ipotesi lo Ior si facesse carico delle passività, allora dove starebbe l’insolvenza del Banco con un credito di quella entità? Manca ancora un quadro completo degli interessi finanziari che sono dietro le vicissitudini del Banco. Come mancano ancora tutti gli elementi per chiarire le circostanze della morte dell’ex presidente».

Non crede al suicidio?
«Calvi si mette in tasca le pietre; scende dal ponte, fa le acrobazie: saranno cose vere, ma non sono verosimili».

Allora l’assassino dove va cercato? Lei è un esperto di gialli…
«Già. Ma l’assassino si scopre all’ultima pagina. Nella storia di Calvi non ci siamo arrivati. Forse sarà bene approfondire un po’ i legami e le compagnie dell’ultimo periodo del banchiere».

Mettiamo, per esempio, il signor Francesco Pazienza, trafficante contiguo ai servizi segreti. Lei dovrebbe conoscerlo, visto che accompagnò Calvi qui da lei.
«Quando Calvi veniva era accompagnato sempre da guardaspalle che aspettavano fuori».

Conosceva Pazienza o no?
«Una volta me lo presentò il generale Santovito. Ma non avevo compreso il nome, e solo più tardi ho saputo che si trattava di lui. Se non sbaglio fu circa due anni fa, prima che Santovito lasciasse l’incarico al Sismi».

Il nome di Santovito fu ritrovato nella lista P2. Un segno dell’infiltrazione della loggia nello Stato.
«Questa è la tesi al centro di un recente convegno organizzato dal Pci. Ma prima che scoppiasse lo scandalo nessuno sapeva, nessuno si era accorto di niente. Nessuno vedeva i legami di Gelli non solo con il Sud America, ma anche con la Romania e un quarto del resto del mondo. Ora che l’ondata emotiva sulla P2 sembra finita, tocca alla commissione parlamentare tirare le conclusioni, senza cadere nella trappola di strumentalizzazioni politiche e parzialità».

La lista degli iscritti alla P2 secondo lei è parziale o completa?
«Questa storia della lista mi ha confermato che c’è qualcuno perennemente desideroso di tirarmi in mezzo ai pasticci. Nemmeno uno dei miei amici è in quell’elenco, ed ecco che dopo la pubblicazione salta subito su qualcuno a dire: vedete non ci sono gli andreottiam (e i comunisti), l’elenco è incompleto».

Miceli Crimi, un medico molto vicino a Gelli, non è stato smentito quando ha dichiarato all’«Europeo» che Gelli le dava del tu. E vero che per Natale le inviava anche certi regaloni?
«Mai dato del tu. In occasione del centenario di Leonardo (non so se facesse parte del comitato), Gelli mi inviò riproduzioni delle macchine leonardesche. Tutto qua. In seguito le ho regalate a mia volta…».

Le trovava ingombranti?
«Ma no, erano piccole. Mi hanno detto che erano d’argento. Magari avrei fatto meglio a tenermele».

Quando e in quale occasione ha conosciuto Gelli?
«Nel 1973, a casa di Juan Perón, che festeggiava il suo rientro ai vertici della politica argentina. Rimasi colpito dal riguardo quasi reverenziale per Gelli. Non sapevo chi fosse allora; mi sembrò un caso di somiglianza straordinaria con un direttore della Permaflex conosciuto fugacemente anni prima».

E come andò che Gelli vinse una commessa per 40 mila materassi con il suo aiuto?
«Che ignoranza delle cose! La stessa domanda mi è stata fatta in commissione P2. Tutte le aziende che impiantano stabilimenti nel Sud hanno per legge diritto a partecipare al 40 per cento delle commesse pubbliche».

Non favori in alcun modo la fabbrica diretta da Gelli?
«Una volta la società si lamentava di essere ostacolata dal ministero dell’Industria. Siccome per mia fortuna conservo sempre le carte, posso provare di essere intervenuto dopo la sollecitazione di altri».

Di chi?
«Del sindaco di Pistoia, dell’amministrazione provinciale e del compianto senatore Calamandrei (comunista, ex vicepresidente della commissione P2, ndr) che mi scrisse una lettera a mano di due pagine. Non so se fossero tutti amici di Gelli».

Che ci faceva tanto spesso Gelli a Palazzo Chigi, quando lei era presidente del Consiglio?
«Due o tre volte l’ho visto quando venne in Italia l’ammiraglio Massera, prima come capo della giunta militare argentina e poi quando fondò, nel suo paese, un nuovo partito socialdemocratico. Ancora, poi, per la visita in Italia del generale Videla».

E cosa faceva Gelli? Qual era il suo compito?
«Questioni protocollari. Si occupava per esempio dell’agenda — colloqui. Per Massera, ricordo, si diede da fare per consegnargli gli elenchi dei desaparecidos italiani. Gelli, insomma, faceva il lavoro di un diplomatico».

Le ha mai chiesto un occhio di riguardo del governo italiano per facilitare transazioni o forniture di armi?
«Assolutamente no, mai».

Fu lei a promuovere indagini sul suo conto?
«No. Non ho mai avuto la sensazione che fosse una persona importante».

Lei non sapeva che l’onorevole Foschi, come sottosegretario all’emigrazione, si interessava dei desaparecidos tramite Lido Gelli?
«Sapevo che se ne occupava, ma che ci fosse di mezzo Gelli no».

Parliamo del caso Eni-Petromin. Lei ha sempre sostenuto che, fino a quando non verrà provato qualche imbroglio, le tangenti pagate in quell’affare sono legittime.
«In questi casi vale l’opinione di chi tratta l’affare. Il presidente dell’Eni, Mazzanti, disse che la mediazione era una condizione indispensabile. Non era mica un costume nuovo; e l’affare era ottimo».

Non sapeva che di mezzo, ancora, poteva esserci Licio Gelli?
«Niente affatto».

Eppure Mazzanti è nella lista della P2, come molti altri protagonisti della vicenda.
«Mazzanti venne a spiegarmi di aver aderito alla loggia quando tutti lo attaccavano. Credeva così di trovare protezione, un aiuto in qualche canale di stampa. Un deputato lo avvicinò e gli offrì di portarlo da qualcuno che aveva voce in capitolo al Corriere della Sera».

Il deputato Emo Danesi?
«Credo fosse lui».

Insomma questa vicenda Eni- Petromin rimarrà un mistero?
«lo mi auguro di no. Anche perché il magistrato svizzero che se ne occupa ha ordinato il sequestro di una ingente documentazione bancaria sull’affare».

Interessante.
«Ho anche saputo che qualcuno ha fatto opposizione a questo provvedimento giudiziario».

La banca Pictet forse?
«No, qualcun altro».

Chi?
«Non me ne occupo. Per delicatezza. Certo sarebbe interessante saperne di più. Questa faccenda non l’ho mai digerita perché se n’è fatta una indecente speculazione i politica».

Quando scoppiò la polemica lei chiamò Umberto Ortolani, altro pezzo grosso della P2, per farsi spiegare le cose. Conferma?
«Sì. Mi disse di non conoscere nessun arabo saudita e di non essersi mai occupato di petrolio».

Eppure, sempre su questo argomento, Ortolani aveva avuto colloqui con il socialista Rino Formica.
«Mi confermò gli incontri con Formica, ma escluse che si fosse discusso di petrolio».

Secondo Clara Calvi, Ortolani era il numero tre della P2, dopo lei e Francesco Cosentino…
«Io lo incontrai la prima volta quando era presidente dell’Incis. Era il ’60 e dirigevo il comitato organizzatore delle Olimpiadi. Si decise di costruire il villaggio olimpico, che, dopo i giochi, sarebbe rimasto come complesso di abitazioni per gli impiegati dello Stato».

Tutti qui i suoi contatti?
«È una persona che si è sempre mossa in un certo ambiente. Era molto vicino a Tambroni. Era, nel mondo cattolico, un personaggio. Nella chiesa di San Petronio, a Bologna, ho visto una statua di Manzù che raffigurava il Cardinal Lercaro. C’è una scritta sotto: “Dono del cavalier Ortolani”. Può darsi che ora l’abbiano tolta».

Ortolani era anche ambasciatore dell’Ordine di Malta. Ne fa parte anche lei?
«Se intende dire che ho ricevuto una onorificenza dell’Ordine, sì. Di onorificenze ne avrò una quarantina. Ci hanno giocato i miei figli e ci giocheranno i miei nipoti».

«Critica Sociale» scrisse di una cena, verso il Natale 1970, a casa di Ortolani. Commensali: l’ospite, Gelli, Sindona e Andreotti.
«È una balla».

Ortolani è però diventato un personaggio importante in molti ambienti. Fece parte anche del consiglio di amministrazione della Rizzoli. Lei non lo sapeva?
«Naturalmente sì. Ma come ci fosse arrivato e quale fosse il suo ruolo, lo ignoro».

Era, ed è, anche molto ricco.
«La sua situazione economica mi sembrava piuttosto notevole. Ricordo anche però che una volta vendette all’asta tutti i suoi beni, qui a Roma. Aveva assunto su di sé i debiti di un giornale, fallito, che aveva fatto capo a Tambroni».

Ortolani discusse con Formica di un possibile riavvicinamento tra lei e Bettino Craxi…
«Un sacco di gente vorrebbe che io andassi più d’accordo con Craxi. Pare che i mali dell’Italia si risolverebbero. Nascono leggende di contatti segreti e iniziative parallele. Craxi fa parte della commissione esteri alla Camera, da me presieduta. Non servono mediatori».

Un altro luogo di mediazioni sarebbe il salotto della signora Angiolillo a Roma. Lei lo frequenta?
«La signora Angiolillo è una gentile padrona di casa. Talvolta invita a pranzo politici, diplomatici, uomini di cultura. Ci sono andato anch’io. È un’usanza simpatica, molto diffusa in altri paesi. Che poi sia una centrale di poteri occulti mi sembra un’interpretazione molto lontana dalla realtà».

Ha incontrato in quelle cene molti personaggi poi comparsi nell’elenco della P2?
«Ricordo sicuramente una volta di aver visto Bruno Tassan Din. Calvi, in casa Angiolillo, non lo ricordo. Lui snobbava piuttosto l’ambiente romano. Se c’era, non l’ho notato. Ortolani e Cosentino no».

Come mai lei era un obiettivo così frequente per la rivista «O.P.» di Mino Pecorelli?
Sono attacchi di cui non mi sono mai dato tanto pensiero. Ne ho avuti di peggiori».

Le risultava che Pecorelli fosse in contatto con Gelli?
«No».

Che Pecorelli fosse in contatto con ambienti dei servizi segreti?
«Questo si. Talvolta pubblicava notizie in campo militare che certamente gli venivano passate. So che era amico del generale Mino (ex comandarne dell arma dei carabinieri morto in un inciderne aereo, ndr). Me lo disse proprio Mino. Il generale aveva organizzato un incontro tra Pecorelli e alcuni militari che lui attaccava più di frequente, per cercare di farlo smettere».

E non si preoccupò di far cessare gli attacchi contro di lei?
«Ma no. Diceva poi delle cose talmente stupide. Una volta mi indicò come proprietario di appartamenti a Campo de’ Fiori; scrisse che facevo pagare affitti troppo alti».

Eppure Pecorelli la consultò per sapere come curare l’emicrania.
«Gli mandai un tubetto di Tonopan, un medicinale che uso talvolta. Con un biglietto. Il mondo degli emicranici è un mondo un po’ particolare. Ricevo anche tre lettere alla settimana, da persone che non conosco, sul tema».

Pecorelli insinuò che lei non fece bruciare tutti i fascicoli Sifar.
«Non solo li feci bruciare, creai una commissione, cercammo un forno adatto che si trovò a Fiumicino, ma nemmeno cedetti alla curiosità di leggere il mio fascicolo».

Dove qualcuno doveva aver notato la sua amicizia con Sindona.
«Amico mi pare un’esagerazione, lo conoscevo».

C’è chi osserva: Gelli aiutò Sindona, e Andreotti curò il progetto che avrebbe dovuto chiudere in modo indolore il crac di Sindona…
«Anche qui si è fatta molta confusione. Il recupero della situazione della Banca Privata, che poi andava a vantaggio non di Sindona ma degli azionisti, nulla avrebbe tolto dalle imputazioni di Sindona.

Sindona, poi, e questo è dimostrato, non ha avuto mai nessun trattamento di favore; anzi, per nessuno come per lui ci si è dati da fare per ciò che riguarda per esempio l’estradizione. E al ministero della Giustizia ne sanno qualcosa».

E il progetto di salvataggio?
«Era stato redatto anche da Enrico Cuccia, cosi mi dissero. E quando l’avvocato Guzzi mi portò il progetto mi chiese di farlo ricevere dalla Banca d’Italia insieme con il commissario liquidatore Ambrosoli e con Cuccia».

E lei lo accontentò?
«Volli prima esaminare la proposta. Pregai Gaetano Stammati di farlo per me. Lui era stato presidente della Comit. L’opinione di Stammati fu negativa e la cosa finì».

Anche Stammati, poi, finì nel listone di Gelli. Onorevole, lei è stato circondato dalla P2 senza saperlo, a quanto pare.
«Le proposte sui nomi, anche per servizi, vengono dal ministero competente, e d’accordo con i militari. Personalmente mi sono occupato del Cesis che faceva capo alla presidenza del Consiglio. Offrii l’incarico a due persone che non lo vollero fare: prima al prefetto Buoncristiano, poi al generale dei carabinieri Ferrara. Accettò il prefetto di Roma Napolitano, che poi lasciò per motivi di salute. Fu allora scelto Walter Pelosi che era prefetto di Venezia, segnalato dal Ministero dell’Interno. Ora si dà sfogo alla dietrologia, si vede la P2 dappertutto. Allora nessuno pensava a domandare: scusi lei è massone?».

“Caso Sindona, Ventriglia affonda e Luciani fallisce” – OP 13.2.1976

A proposito di Sindona, corre voce che un certo dr. Luciani (Gelli) consulente finanziario di un notissimo e molto influente senatore democristiano, ultimamente abbia varcato per ben due volte l’oceano, destinazione Usa Hotel Pierre, per tentare di piazzare 700 milioni di titoli Finambro di cui è portatore presso Michele Sindona. Il quale si sarebbe dichiarato disponibile all’operazione, a patto che gli venga ripristinata la sua precedente situazione economica e politica in Italia. E’ stato a quel punto che a… Luciani s’è rizzata la criniera in testa.

OP 13.2.1976