Luciano Benardelli – dichiarazioni 28.03.1985

Adr: intendo rispondere. Il contenuto del mandato di cattura mi ha sorpreso notevolmente perche’ e’ completamente estraneo sia a mie partecipazioni sia a mie conoscenze. Del camion carico di esplosivo e di armi ho avuto notizia il 25.3.85 leggendo il mandato di cattura che mi veniva notificato. E’ sbagliato quanto scritto nel mandato col riferimento a mie attivita’ dell’aprile 1974 perche’ io non so nulla di quanto accaduto prima del primo incontro con esposti che e’ del maggio 1974.

Adr: Cauchi non l’ ho mai visto in vita mia, so che era mio coimputato per Ordine Nero a Bologna, ma nel processo lui fu sempre latitante, il gruppo toscano formato da Batani ed altri, tutti processati per Ordine Nero a Bologna, li ho incontrati per la primavolta nel carcere di Bologna e precisamente nel carcere di Pratello. Non sono mai stato in Toscana e’ la prima volta che vengo a Firenze.

Devo aggiungere che sono stato una volta a Lucca in viaggio di nozze con la mia prima moglie nel 1981.

Adr: ripeto che Cauchi non l’ ho mai visto mentre al processo di Bologna venivano i suoi genitori. Brogi era detenuto a Bologna ma era separato da noialtri ed e’ al processo che io l’ ho visto per la prima volta e su di lui correvano commenti poco felici, ed era separato per questa ragione. Bumbaca l’ho conosciuto in cercere a Bologna per quel processo, Franci mi e’ noto dalle cronache ma non l’ho mai visto di persona. Zani e Ferri li conobbi tanti anni fa a Milano quando frequentavamo il fronte della gioventu’. Zani l’ ho rivisto detenuto a Bologna, mentre Ferri l’ho quando io ero latitante in svizzera ma poi lui rientro’ in Italia per costituirsi dopo che fu accusato per la strage di Piazza della Loggia.

Adr: nel 1974 avevo una lambretta 125, le armi trovate a Rocca San Giovanni non sono mie e io non c’ entro nulla come ho sempre affermato in altri processi.

Adr: rendo atto che il GI mi fa presente che in questa istruttoria che ha oggetto quattro attentati ad impianti ferroviari, la mia posizione e’ secondaria e dato il tempo trascorso la stessa gravita’ dei fatti viene ridimensionata da un successivo inserimento nella vita civile, per cui un comportamento che il GI definisce di verita’ puo’ essere valutato positivamente. La mia verita’ l’ ho detta e la confermo e aggiungo che dopo la mia scarcerazione dal processo di Brescia avrei potuto allontanarmi ma non l’ ho fatto fatto. Sono rimasto in Italia perche’ non c’ entro in nulla.

Adr: prendo atto che il gi mi fa presente questa circostanza: tra la fine del 1973 e l’ inizio del 1974 in una zona montuosa a cavallo fra l’Emilia e la Toscana, verso Lucca o Pistoia, vi fu una riunione questa riunione fu causata dallo scioglimento di Ordine Nuovo; a questa riunione furono presenti molti non appartenenti a ordine nuovosul che cosa fare dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo; molti affermarono di dover continuare le attivita’ precedenti – mentre solo poche proposero un passaggio ad attivita’ clandestine -. Il GI mi fa presente che allo stato degli atti, e cioe’ per quanto risulta fino ad oggi al GI, questa riunione in assoluto non e’ oggetto di valutazione per l’ affermazione di responsabilita’ penali.

Il GI mi fa ancora presente che io sono stato indicato come uno dei partecipanti alla riunione in questione. A questa contestazione rispondo che della riunione non so assolutamente nulla perche’ io non vi ho partecipato.

Adr: nel 1972 venni via da Milano e andai a vivere a Lanciano dai miei genitori. Nel maggio del 1974 mi avvicino’ Colombo Gianni, un ragazzo di Lecco che avevo conosciuto a Milano, Colombo mi disse chedalle parti di Teramo c’ erano tre persone di cui mi fece i nomi che volevano vedermi sapendo che io ero a Lanciano. Andai a e trovai d’ intino e danieletti che vedevo per la prima volta, ed esposti cheavevo conosciuto a Milano anni prima. Volevano fermarsi in zona per un breve periodo e attraverso il padrone di un ristorante li aiutai ad affittare una casa per tre mesi.

A questo punto il GI, anche su richiesta della difesa dispone procedersi a confronto a confronto fra il Benardelli e chi lo accusa fissando l’ incombente alle ore 18.30 di oggi 25.3.85 sempre nei locali della questura.

L.c.s.

Sulla figura di Pietro Rampulla – dichiarazioni Antonino Calderone

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione la scelta di cui ha appena accennato di fare attentati dopo le assoluzioni di Catanzaro? Mi pare che i capi di Cosa nostra uscirono assolti, dopodiché si disse: “Ci dobbiamo ripresentare”.

ANTONINO CALDERONE. Sì, dobbiamo far sentire che siamo presenti, tanto è vero che poi si dovevano mettere le bombe. E’ venuto a Catania Francesco Madonia, quello di Palermo, portando una bomba ad orologeria, ma era un ordigno fatto artigianalmente. Si doveva mettere quando lo dicevano loro.
Avevano deciso di metterlo alla fine dell’anno, poi non erano d’accordo, fatto sta che noialtri non l’abbiamo messo. Luciano Liggio disse a mio cugino: “Senti, hai ancora quella bomba?”. “Sì”. “Perché non la metti dietro alla porta del palazzo di giustizia?”. Quello l’ha messa ed è scoppiata.

PRESIDENTE. Quando fu messa la bomba nella macchina di suo fratello non fu fatta intervenire la polizia perché un
uomo d’onore non deve farlo, ma venne chiamato Pietro Rampulla. Può spiegare chi era?

ANTONINO CALDERONE. Pietro Rampulla è il figlio di un grande uomo d’onore di Mistretta. Era quello che spingeva
molto per ammazzare il presidente della regione D’Angelo. Da ragazzo, frequentando la scuola, diventò fascista. Dice lui – ed io ci credo – che lo hanno istruito nel maneggiare il tritolo, le bombe. Nitto Santapaola ha portato questo signore per disinnescare la bomba, perché noialtri non ne capivamo niente. Lui ha staccato i fili e ci ha spiegato che era una bomba con comando a distanza. Era una piccola scatola da scarpe, l’abbiamo aperta e c’era una lampada: come faceva contatto si accendeva. C’erano una batteria e tanti fili. Ora, se non ho messo io la bomba non
la stacco così presto.

PRESIDENTE. Venne il sospetto che l’avesse fatta Rampulla?

ANTONINO CALDERONE. E’ logico.

PRESIDENTE. Come è possibile che un terrorista di destra fosse anche uomo d’onore?

ANTONINO CALDERONE. Non era più di destra. Era stato terrorista, aveva dato qualche coltellata, aveva un processo,
mi pare, ma poi era uscito.

PRESIDENTE. Quando Cosa nostra, dopo le assoluzioni di Catanzaro, decise di attuare la strategia della violenza per
rifarsi viva, era sola ad aver deciso o c’era qualcun altro che poteva aver interesse?

ANTONINO CALDERONE. Non so. Io sapevo che era Cosa nostra ad aver deciso così.

PRESIDENTE. Può dare alla Commissione i chiarimenti a sua conoscenza sulla questione del golpe Borghese?

ANTONINO CALDERONE. Sì. Qualcuno a Palermo ha fatto sapere che Valerio Borghese voleva fare un golpe e voleva gli uomini della mafia (non sapeva che si chiamava Cosa nostra).
Si sono riuniti ed hanno deciso. I fascisti non li hanno mai potuti vedere per il fatto di Mussolini, perciò si disse che
se riuscivano nel golpe per noialtri erano guai, allora tanto valeva prenderli in giro dicendo di sì, che accettavamo: se
vincono, abbiamo guadagnato, se non vincono non abbiamo perso niente. Si disse che uno poteva andare a conoscere come stavano le cose e mio fratello si recò a Roma ad un appuntamento. Fu preso da una persona che lo portò da Valerio Borghese, che gli chiese molti uomini e spiegò la strategia del golpe.

PRESIDENTE. Cosa gli disse?

ANTONINO CALDERONE. Che Roma era il centro e tutta l’Italia era periferia. Si doveva occupare prima di tutto il
Ministero dell’interno e la RAI. Dal Ministero dell’interno un loro uomo avrebbe diramato a tutti i prefetti l’ordine di
levarsi perché sarebbero stati sostituiti da altri uomini.
Dovevamo accompagnarli noialtri mafiosi o i fascisti per farli insediare: se i prefetti non si volevano levare dovevamo
intervenire noialtri. Borghese disse che dovevamo arrestarli e mio fratello rispose che non avevamo mai arrestato persone e che, se voleva, li potevamo ammazzare. Gli dissero che ci avrebbero dato delle armi, se mandavamo degli uomini a Roma, e che ci avrebbero fatto sapere la data. Hanno fissato la data ed è partito dalla Sicilia Natale Rimi con altri due. Gli hanno dato dei mitra, in quella famosa notte, dicendo: “Se sentite a Roma sparare qualche colpo…”. Noi aspettavamo all’aeroporto il ritorno di questo.

PRESIDENTE. Tutto il vostro contributo era rappresentato da tre persone?

ANTONINO CALDERONE. Sì.

PRESIDENTE. Se poi la cosa fosse andata bene vi sareste mossi?

ANTONINO CALDERONE. Sì. Comunque, agivamo così per farceli amici e perché ci promisero che avrebbero revisionato i processi di Liggio, Rimi e qualche altro. Naturalmente, non ci garantivano che poi avremmo potuto effettuare omicidi a nostro piacimento, poiché vi sarebbe stata comunque una legge. Intanto, però, si potevano revisionare i processi.

PRESIDENTE. Subire processi e condanne rappresenta un fatto grave per Cosa nostra?

ANTONINO CALDERONE. E’ gravissimo, non grave.

PRESIDENTE. Quindi, uno dei maggiori interessi di Cosa nostra è quello di ridurre la reclusione ed annullare i processi?

ANTONINO CALDERONE. E’ logico, perché in tal modo si comanda meglio e si acquista un certo carisma. Infatti, chi
riesce a far annullare un processo acquista, agli occhi degli uomini d’onore, un grande prestigio.

Dichiarazioni di Antonino Calderone in commissione parlamentare antimafia dell’11.11.1992

Le dichiarazioni di Gioacchino Pennino su Calvi e l’Ambrosiano

Parimenti, Giocacchino Pennino ha confermato che Calvi gestiva il denaro di Cosa Nostra, che il banchiere non aveva onorato l’impegno preso con Cosa Nostra, che non era stato più nelle condizioni di restituire il denaro e che l’organizzazione, per il tramite di Vitale, si stava attivando per recuperarlo. In particolare, ha articolato il suo racconto nei termini che seguono. Aveva appreso da Bontate e, soprattutto, da Giacomo Vitale che i proventi illeciti delle famiglie di Santa Maria del Gesù, di Uditore-Passo di rigano, le quali facevano capo, rispettivamente, a Bontate e a Inzerillo, erano stati convogliati nelle holding di Sindona. Erano stati fatti confluire anche soldi di altre famiglie, collegate alle due, ma che non sapeva indicare. Nella seconda metà degli anni ’80 aveva appreso da Giuseppe Marsala, il cui diminutivo era “u Pinuzzu”, e da Giacomo Vitale, il quale, in quegli anni, si era recato al suo laboratorio di analisi cliniche, in quanto “doveva recuperare i loro capitali, i capitali fuori famiglia mafiosa, della sua famiglia di sangue”. Costoro lo avevano reso edotto del fatto che Sindona ”quando vi fu il crack delle sue banche (…) canalizzò (…) il denaro presso il Banco Ambrosiano di Calvi”.

Egli era a conoscenza del fatto che il Banco Ambrosiano “aveva nel suo statuto delle facoltà di gran lunga superiori” a quelle degli altri istituti. Gli era stato detto che vi erano dei “vantaggi legati alla gestione del denaro”, ma non poteva specificare quali perché non era un tecnico. Sindona aveva degli “impegni di carattere economico perché deteneva i soldi” delle famiglie mafiose e “quando ebbe il crack, li dovette restituire”. Una parte era riuscito a restituirli e la restante la “canalizzò” nel Banco Ambrosiano di Calvi… che era pur sempre di origine cattolica”. Sindona aveva rispettato i suoi impegni con Cosa Nostra. Sempre dalle stesse fonti aveva appreso che Calvi aveva preso degli impegni con appartenenti a Cosa Nostra e che “non aveva onorato.. l’impegno preso” e “non aveva restituito il denaro che… gestiva”. Calvi aveva ottenuto delle risorse finanziarie tramite lo IOR. Lo Ior è l’Istituto opere religiose, la banca del Vaticano, all’epoca diretta da mons. Marcinkus, e Calvi gestiva anche parte delle finanze di origine vaticana.
Giacomo Vitale si era recato da lui perché voleva sapere se fosse “nelle condizioni di reperire Licio Gelli”. Egli non era nelle condizioni di farlo e gli aveva risposto che non aveva la possibilità. Lo scopo che “si prefiggeva era quello di rientrare del denaro che era stato consegnato a suo tempo al banco Ambrosiano di Calvi” per rientrare “in possesso”. Agiva per sé, per la sua famiglia di sangue e per la famiglia di cui faceva parte. Vitale si era rivolto a lui perché “sapeva che era massone e che aveva avuto la possibilità di conoscere un po’ tutti i massoni dell’epoca”. Tali indicazioni sono state in buona sostanza ribadite nel prosieguo della sua deposizione in sede di controesame della difesa: riferiva che Vitale gli aveva dato l’impressione che cercasse Gelli per poter recuperare il denaro del banco Ambrosiano, e gli aveva detto che i loro capitali erano nel Banco Ambrosiano. Invitato a precisare se gli avesse dato l’impressione o se glielo avesse detto che vi era un nesso tra la ricerca di Gelli e il denaro del Banco Ambrosiano, ha sottolineato che erano trascorsi circa vent’anni e non poteva avere una visione precisa “di problemi” che non lo interessavano. Aveva ascoltato “mal volentieri fatti” che non lo riguardavano.


Gli veniva ricordato che, in data 10.2.2004 aveva dichiarato: “Nella circostanza di questo… di questo colloquio mi disse anche che cercava di mettersi in contatto con Licio Gelli per poter recuperare il denaro che ormai Calvi non poteva più restituire”. Pennino ribadiva che Vitale “doveva recuperare i soldi del Banco Ambrosiano”. (…) Non gli aveva spiegato cosa c’entrasse Gelli con il denaro di Calvi, con quali modalità Sindona aveva trasmesso i soldi a Calvi, quale fosse il quantitativo di denaro, e se la mancata restituzione di soldi da parte di Calvi fosse stata preceduta da richieste di restituzione. Egli si limitava ad ascoltare.
Aveva avuto per la prima volta notizia che i mezzi finanziari affluivano nelle holding di Sindona nella metà degli anni ’70. Sindona era un banchiere che si diceva operasse tanto in Italia quanto in Svizzera e all’estero, ove agiva con la Franklin Bank. Il fatto che il denaro confluisse nelle holding di Sindona lo aveva saputo da Bontate e da Vitale, nei momenti di frequentazione. Vitale non era un uomo d’onore, mentre Bontate era il capo mandamento della famiglia di Santa Maria del Gesù ed era suo coetaneo, entrambi erano nati nel 1938, e da sempre lo aveva frequentato. Entrambi si recavano nella casa di suo zio Gioacchino Pennino, che fu una delle persone più rappresentative di Cosa Nostra.
Aveva appreso soprattutto da Giuseppe Marsala – uomo d’onore della famiglia di Santa Maria del Gesù, che nel periodo in cui aveva avuto rapporti con lui ricopriva un ruolo di comando e di coordinamento in quella famiglia – che parte dei capitali consegnati a Sindona erano poi confluiti nelle holding di Calvi. Quando si era verificato il crack finanziario di Sindona aveva restituito una parte dei capitali a Cosa Nostra e la restante l’aveva dirottata, “certamente con il placet di coloro che gli avevano affidato il denaro al Banco Ambrosiano di Calvi”.

Estratto dalla requisitoria del pm Tescaroli riportata nel libro “Dossier Calvi”.

Claudio Sicilia – dichiarazioni 19.11.1986

Lo Iacolare aveva anche saputo dal medesimo canale che il Casillo aveva effettuato frequenti viaggi in Inghilterra e a Parigi, cosa che lo Iacolare sapeva anche per conoscenza diretta. Aveva saputo inoltre che il Casillo durante uno dei viaggi in Inghilterra aveva partecipato alla eliminazione di Calvi quale prima prova di fedeltà ai Nuvoletta; in proposito mi disse che un grande quantitativo di denaro dei mafiosi era stato investito per il tramite di Calvi in attività immobiliari.

Il Calvi doveva essere eliminato perché era a conoscenza di molti fatti importanti e non era più affidabile in quanto non ci stava più con il cervello perché preoccupato di provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Lo Iacolare mi disse che aveva saputo dell’omicidio Calvi oltre che dal canale maranese da certi magliari, commercianti di biancheria, suoi amici napoletani di Londra.

Lo Iacolare mi disse che Calvi era stato impiccato dal Casillo e da altre persone che non conosceva; aveva sospettato che insieme al Casillo ci fosse anche il Cuomo. Chiesi spiegazioni su come si potesse far impiccare una persona a mo’ di esempio. Lo Iacolare mi disse se ricordavo l’episodio dell’impiccagione di tal Cartuccia e di un certo Di Matteo di S. Antimo, fatti verificatesi nel carcere di Ascoli Piceno.

Claudio Sicilia – dichiarazioni 17.11.1986

Ad un certo punto della comune detenzione lo ZAZA iniziò a parlami più esplicitamente della sua attività e ciò spesso in presenza del BONO; queste confidenze erano motivate dal fatto che in prospettiva io avrei potuto far parte di associazioni mafiose, in quanto ero persona fidata attese le mie parentele. Mi parlò in proposito di Danilo ABBRUCIATI che era appunto mafioso pur operando con altri gruppi i cui componenti erano all’oscuro della appartenenza alla mafia dell’ABBRUCIATI.

Mi raccontò che l’ABBRUCIATI pur avendo tolto a Umberto AMMATURO la donna, tale Toscano mi sembra comunque una brasiliana cognata di un altro mafioso Nunzio GUIDA, non aveva subito conseguenze proprio per la sua appartenenza alla mafia. Lo ZAZA era a conoscenza di tutti i fatti avvenuti a Roma in quanto gli erano riferiti dall’ABBRUCIATI il quale faceva parte della “famiglia” di Pippo CALÒ. Lo Zaza mi parlò delle vicende del suo processo a Roma; mi disse che si occupava da tempo del traffico dell’eroina, che per li traffico si serviva della struttura della sua organizzazione napoletana”.

Il delitto Mangiameli

Il 2 settembre Volo, Mangiameli e le rispettive compagne si muovono dalla Sicilia e vanno in Umbria, a Cannara, un paesino in provincia di Perugia: lì per una settimana sono ospiti di Salvatore Davì, che è un appartenente di Cosa nostra, in soggiorno obbligato in attesa degli esiti di un processo per l’omicidio di un poliziotto. Se non è già un esponente di rilievo, Davì lo diventerà, perché, scontate le condanne, salirà a capo della famiglia di Partanna-Mondello. I motivi per cui Mangiameli e Volo soggiornano proprio da Davì per una settimana non sono noti, si può solo supporre che Mangiameli avesse necessità di essere protetto, nella prospettiva di vedersi con il gruppo di Fioravanti. Oppure, per quanto fa capire Alberto Volo, lo scopo del viaggio sarebbe stato anche quello di «acquisire elementi per chiarire, attraverso canali diversi, tutti i sospetti che si erano accumulati, considerando le gravi vicende di quell’anno 1980». Più nello specifico, Volo riporta che «in effetti Mangiameli mi disse – il 9.9.80 durante il viaggio da Perugia a Roma – di sapere che vi era stata una riunione a casa di Gelli cui aveva partecipato Valerio Fioravanti e che aveva posto tale riunione in relazione con l’omicidio Mattarella, proprio perché già allora sospettava che il Fioravanti fosse stato autore materiale dell’omicidio». Questo spiegherebbe il motivo della fuga, ma presuppone rapporti occulti fra l’estrema destra e la mafia. Mangiameli decide di andare a Roma, appunto il 9 settembre, usando l’Alfa Sud del Davì. Dapprima si trova con Roberto Fiore, poi nel pomeriggio, verso le 15.30, arriva in piazza della Rotonda per l’appuntamento di chiarificazione con i Nar: lo vanno a prendere, Mangiameli sale su una Golf di colore argento, ma non lo fa Volo, che non si fida. Alla guida c’è Cristiano Fioravanti e con lui Dario Mariani. Mangiameli viene portato in una pineta di Castelfusano e lì viene ucciso con un macabro rito, ognuno gli spara un colpo, prima Cristiano, poi Valerio, quindi Giorgio Vale. La Mambro e Mariani provvedono a sbarazzarsi del cadavere, che viene buttato in un laghetto artificiale in località Spinaceto e qui zavorrato; poi raggiungono gli altri che sono a cenare in un ristorante. Il ritardo nel ritrovamento è funzionale perché, nelle intenzioni, c’è anche quella di uccidere ancora «per avere il tempo di rintracciare Fiore e Adinolfi nonché la stessa moglie di Mangiameli». Tale intento non si verifica, anche perché Mangiameli viene ritrovato già due giorni dopo, quando il corpo riemerge in superficie. Il delitto apre una faglia fra i Nar e Terza Posizione, che risponde con un documento, che è anche un’accusa: L’ignobile strage di Bologna, che tanto da vicino ricorda quella di Abadan ad opera della Savak o quelle di Piazza Fontana, di Brescia, di Peteano, del treno Italicus, ha forse fatto la sua 85a vittima?

 

Fonte: “La democrazia del piombo“, Luca Innocenti