“Operazioni sui cambi” – Estratto relazione di minoranza sulla P2

Illustriamo, prima di tutto, a beneficio dei “non addetti ai lavori”, che cosa è una operazione sui cambi. Si tratta sostanzialmente di speculazioni, più che lecite, che vengono attuate soprattutto tra banca e banca: la banca “X” si impegna con la banca “Y” di ritirare presso quest’ultima, di lì a qualche mese, una data somma in valuta (dollari, sterline, marchi e così via) a un prezzo che viene convenuto al momento della stipula del contratto. Che cosa succede, allora, al momento in cui scadono i termini della operazione? Molto semplice: mettiamo che la banca “X” abbia stabilito con la banca “Y” di acquistare, di lì a tre mesi, un milione di dollari al prezzo convenuto di 1.700 lire al dollaro (quotazione attuale). Ebbene, se alla scadenza dei termini il dollaro varrà più di 1.700 lire, la banca “X” avrà fatto un buon affare perché sarà entrata in possesso di un milione di dollari il cui valore risulterà maggiore del prezzo pagato. E ci avrà rimesso la banca “Y”. Se la quotazione, invece, sarà risultata inferiore, ci avrà rimesso la banca “X” (acquirente a 1.700 lire) e ci avrà guadagnato la banca “Y”, venditrice.
Chi gioca partite del genere, naturalmente, deve operare sulla base di complesse valutazioni e previsioni, di natura finanziaria, economica, politica, perché nulla vi è di più mutevole delle oscillazioni dei cambi sui mercati internazionali. Per di più, deve giocare avendo sempre a disposizione, in contanti, o comunque garantite, le somme necessarie per onorare gli impegni presi. Fornita questa spiegazione, veniamo ora alla operazione sui cambi che ci porta a Sindona.
Per operare in questo settore, Michele Sindona aveva costruito la “Moneyrex” (Euromarket Money Brokers), vale a dire una società di intermediazione monetaria, e ne aveva affidato la direzione tecnica a Carlo Bordoni, un tipo poco raccomandabile, già licenziato in tronco dalla filiale di Milano della “First National City Bank of New York” perché, quale responsabile della sezione cambi, aveva abusivamente speculato con il denaro della banca, dirottando i profitti sul suo conto personale e scaricando le perdite sull’istituto di credito. Un elemento, in definitiva, fatto su misura per Sindona che, in fatto di etica e di morale, ha sempre lasciato molto a desiderare. Ebbene, il 17 gennaio 1973, Carlo Bordoni, agendo per conto della “Moneyrex”, stipulò un contratto di compra-vendita di valuta con la “International Westminster Bank” di Francoforte (che fa parte del gruppo “National Westminster Bank” di Londra): dollari contro lire per un ammontare di circa 125 milioni di dollari.
Una tipica “operazione a termine” : con quel contratto, infatti, la “Moneyrex” si impegnava ad acquistare, di lì a sei mesi, tra il 19 e il 31 luglio successivo, 125 milioni di dollari al prezzo convenuto di 601,80 lire. Sempre nella stessa giornata, Bordoni stipulò un contratto identico con la filiale parigina della “First National Bank of Boston”: dollari contro lire, scadenza 19/31 luglio successivo, per un totale di 13 milioni di dollari a 601,80 lire al dollaro. Totale: 138 milioni di dollari del 1973, che, in lire attuali, rappresentano circa 500 miliardi. Ed ora, attenzione: alla data del 17 gennaio 1973, avviare una operazione sui cambi di quella portata, offrendo lire in cambio di dollari, costituiva una autentica pazzia. Il motivo è presto detto. Posto che l’obiettivo era quello di puntare su un aumento del valore del dollaro nei confronti della lira tra il gennaio e il luglio successivo, e quindi, in definitiva su una svalutazione della lira nei confronti del dollaro, si dava il fatto che, all’inizio del 1973, la moneta italiana era considerata una moneta sufficientemente solida, anche perché l’annata precedente (1972) si era chiusa in termini economicamente positivi, con un attivo di oltre 800 miliardi per quanto riguardava la bilancia dei pagamenti, partite correnti.
In altre parole: offrendo 601,80 lire (più spese) per dollaro in data 17 gennaio, Michele Sindona rischiava, il 19 luglio successivo, di pagare 601,80 lire (sempre più le spese) una moneta che, a lume di logica, avrebbe potuto valere alcune lire in meno.
Rimettendoci cosi, date le cifre in gioco, una barca di miliardi. Invece, guarda caso, tre giorni dopo, il 20 gennaio 1973 si verificò un fatto di eccezionale importanza, tale da offrire una logica giustificazione alla operazione sui cambi avviata da Sindona: il governo presieduto da Giulio Andreotti, sulla base di considerazioni di carattere monetario internazionale, decise di abbandonare l’ormai convalidato sistema dei “cambi fissi”, e varò quello del “doppio mercato dei cambi”. In poche parole, il governo Andreotti cessò di sostenere la lira nei confronti delle altre monete e lasciò che seguisse le oscillazioni di mercato: un provvedimento, questo, che venne subito interpretato come premessa ad una inevitabile svalutazione della moneta nazionale. E infatti la conseguenza immediata del provvedimento preso dal governo Andreotti fu che il dollaro, che al 20 gennaio 1973 oscillava attorno alle 600 lire, balzò in pochi giorni a quota 625. Il che, per Sindona, significava, sin dai primi giorni dell’operazione, un guadagno di circa 25 lire moltiplicato per 138 milioni di dollari, vale a dire 3 miliardi e mezzo di lire (circa 20 miliardi di oggi). Sembra quindi logico dedurne che Sindona fosse stato preventivamente informato del provvedimento che il presidente Andreotti stava varando. Il che spiega (e torniamo così ai motivi che ci hanno portato a ricostruire questa complessa “operazione sui cambi”) la facilità con cui Michele Sindona riuscì a ottenere, in quella circostanza, le indispensabili garanzie che gli erano necessarie, nei confronti delle due banche di Francoforte e di Parigi, per stipulare i relativi contratti per un totale, 10 ripetiamo, di 138 milioni di dollari (500 miliardi di lire attuali).

Ma circa le garanzie ottenute saremo più precisi nel quarto capitolo “I dollari facili”. Per concludere intanto questa documentazione sulla “operazione cambi ” condotta da Sindona nel 1973 è necessario aggiungere alcuni particolari che comprovano l’enorme, e misteriosa, disponibilità di mezzi a disposizione del banchiere siciliano in quel periodo.
Va detto, infatti, che quella specifica operazione ebbe dei risultati disastrosi, perché nel primo semestre del 1973, anziché rafforzarsi anche nei confronti della lira, il dollaro subì un tracollo su scala internazionale (per motivi che in questa sede sarebbe troppo lungo specificare), per cui alla data del 19 luglio, Sindona si trovò a pagare, oltre le perdite, anche le grosse somme determinate dall’accumularsi degli interessi. Ma questo insuccesso non lo fermò e, per rifarsi, si gettò in ulteriori operazioni sui cambi per cifre sempre più alte, fino ad un totale raggiunto nella primavera del 1974, di oltre quattro miliardi di dollari. Il che contribuirà non poco a determinare il suo crollo definitivo.

Memoriale di Bruno Tassan Din alla Commissione P2 – 12.08.1983

Illustrissimo Signor Presidente, ho appreso, oggi dalla radio, che ella è stata riconfermata Presidente della Commissione di indagine parlamentare sulla P2 e che la Commissione è stata ricostituita.
Mi rivolgo a Lei e alla Commissione, oggi 12 agosto 1983 dopo circa due anni e mezzo da quando il 6 gennaio 1981 io sono venuto a deporre in una lunga notte davanti a Lei e alla Commissione, cui avevo fatto pervenire una lettera e relativa documentazione di denuncia contro i tentativi di ingerenza del Gelli e l’Ortolani sul gruppo editoriale  di cui allora avevo la responsabilità. Come credo ricorderà nel corso della deposizione, dopo aver esposto le minacce cui ero stato sottoposto (“sarai stritolato”) avevo detto a Lei e agli altri onorevoli membri che (…) mi affidavo a loro.
(…) io le scrivo da una cella (reparto ROI “osservazione interna”) del carcere di Piacenza dove sono da circa 72 giorni. Sono rimasto in isolamento completo per 30 giorni. Dopo 54 giorni sono uscito per la prima volta a prendere mezz’ora d’aria. Mi trovo nella cella che fu dei Vallanzasca e dei più pericolosi banditi. Sono in un reparto di sei celle dove vengono tenuti coloro che sono in punizione. Cioè quelli che in carcere tentano di uccidersi, fanno lo sciopero della fame, sono violenti con gli altri, cioè quelli che arrivano al limite estremo della disperazione (non so come chiamarla) dell’uomo. E le loro urla o i loro dialoghi penetrano nelle mie orecchie e nel mio cervello da 72 giorni di giorno e notte. E’ la terza volta nel giro di dodici mesi che sono stato incarcerato per una serie di accuse che iniziarono nell’aprile 1982 (…).
Mi rivolgo a Lei ancora una volta  perché credo che lei sia spinta dall’intento primario di giungere alla verità in tutta la vicenda che state indagando (e spero di non essere accusato ancora una volta di voler distorcere i lavori della Commissione) e perché sono convinto che l’aspetto politico di queste vicende deve essere ancora svelato e perché l’analisi impressionante dei fatti e la loro successione  nel corso di questo periodo deve avere per quanto mi riguarda anche delle responsabilità politiche, se no paiono inspiegabili.
Non voglio assumere la figura del perseguitato, ma è certo che in uno Stato di diritto, tutto quanto mi è capitato assume un aspetto impressionante in particolare per il fatto che due anni e mezzo fa io avevo denunciato al Parlamento queste previsioni di minacce.
Vorrei quindi ripartire questa mia memoria, in due parti:
La prima riguarda il periodo che va fino all’aprile 1981 e vuol esporre in aggiunta a quanto ho già fatto presente nelle mie deposizioni presso di voi e anche integrando in parte gli interrogatori dei diversi magistrati delle Procure e dei Tribunali di Milano, Roma e Perugia, quanto io so per diretta conoscenza o perché mi è stato riferito dallo stesso Gelli, dall’Ortolani, dal Rizzoli sui rapporti politici tra il Gelli (o la P2) e i vari partiti e uomini politici. Cioè vorrei esporre quanto io so sull’aspetto politico sulle connessioni di Gelli e di Ortolani e sui quali in Commissione ho sempre taciuto.
La seconda parte riguarda il periodo che va dall’aprile 1981 a oggi agosto 1983 ed elenca i fatti che sono accaduti e sottopone la loro impressionante successione perché coincidenze e situazioni anch’esse assumono o possono assumere una rilevanza politica importante.

1° = Connessioni politiche di Gelli e Ortolani (fatti o rapporti a mia conoscenza nel periodo 1976-1981).
Premetto che io non conosco né il progetto (se c’era) politico di Gelli e Ortolani, né tutta la rete di rapporti politici degli stessi. Il mio rapporto con loro riguardava problemi relativi al mio gruppo. Posso solo riferire quello che mi hanno detto o sono venuto casualmente a conoscere sui rapporti che tutti e due o singolarmente avevano con partiti e uomini politici e che mi pare finora siano solo in parte stati analizzati e chiariti. Tali rapporti, come d’altronde è naturale, hanno subito evoluzioni nel corso del periodo considerato. Io posso solo riferire quanto onestamente ricordo, con la sola intenzione di contribuire alla verità e senza alcuna mira di carattere politico. L’altro punto da sottolineare era che Gelli tendeva a millantare amicizie o collegamenti, molte volte invece dell’uomo politico interessato contattava il suo segretario. Quindi cercherò di riferire solo le situazioni di cui sono certo o quando vi sono dubbi di evidenziarli. Cercherò di ricostruire i miei ricordi nei vari periodi del nostro rapporto con Gelli. Posso dire in estrema sintesi che Gelli, a mia conoscenza, ha avuto rapporti con uomini politici della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista, del Partito Repubblicano, del Partito Social-Democratico. Non sono direttamente al corrente di rapporti con uomini politici del Partito Liberale, del Movimento Sociale. Mentre per il Partito Comunista, con me, è sempre stato molto netto nel considerarlo il suo più importante nemico, ma Ortolani invece mi diceva che aveva dei rapporti con alcuni esponenti, senza mai indicarmi il nome.
Ortolani invece a mia conoscenza aveva rapporti con uomini della Democrazia Cristiana, mentre per il Partito Socialista so solo di pochissimi contatti. I rapporti di Ortolani erano più ramificati con personaggi della burocrazia statale e delle aziende a partecipazione statale. Riepilogo qui di seguito ripartiti per partito i contatti di cui io sono stato al corrente. Di molti potrete verificare con Rizzoli oltre che con gli interessati:

Democrazia Cristiana
In questo partito i collegamenti di Gelli erano tenuti con quasi tutte le correnti e variavano nel tempo a seconda delle alleanze e delle posizioni che ciascun personaggio assumeva nelle istituzioni statali o governative. Quindi non so dire quale sia stato il suo grado di influenza specifica e di durata nel tempo e per ciascuno. Posso ad ogni modo riassumere quanto segue per quanto riguarda personaggi che come esposto negli interrogatori alla magistratura hanno avuto contatti con noi.

Leone (Presidente della Repubblica)
Non sono al corrente di un suo rapporto diretto. Lui controllava (come diceva) il segretario generale della presidenza dell’epoca e altri funzionari.

Fanfani
Diceva di conoscerlo e di frequentarlo, cenando con lui e con la moglie (mi ha accennato a diverse colazioni nel corso del periodo). Aveva rapporti strettissimi con Cresci (Rizzoli era amico di Cresci e di Gervaso anche perché li sapeva amici di Gelli), che era il factotum di Fanfani. Per quanto mi riguarda direttamente ricordo che per l’affare Sipra Gelli mi parlò offrendomi un suo interessamento presso Cresci e presso Pasquarelli. Pasquarelli sicuramente andò diversamente volte da Gelli al momento della conclusione dell’affare Sipra. Conoscevo questo perché un giorno Pasquarelli venne da me in via Abruzzi, preavvisato da una telefonata di Gelli.

Bisaglia
Diceva di avere un rapporto diretto con quello che chiamava Toni. Io non lo so se era vero o no. Posso dire che molto spesso telefonava dall’albergo a, lui diceva, Bisaglia, ma forse era millantato credito e telefonava solo al segretario. So che Bisaglia intratteneva rapporti molto cordiali con Calvi. Così mi diceva anche il Gelli. Da parte mia i rapporti con Bisaglia li tenevo direttamente e l’ho conosciuto prima di conoscere Gelli. Non c’è mai stata connessione per quanto mi riguarda. Ricordo che passava per questo uomo politico da un amore sviscerato a contrasti. Alcune volte, ma molto blandamente, mi ha chiesto di supportarlo.

Piccoli
Non ho mai avuto rapporti attraverso Gelli, ma sempre diretti. Gelli ogni tanto parlava di lui e chiese a me e Rizzoli il nostro accordo, di cui era a conoscenza, e che gli dovemmo consegnare al momento dello studio della capitalizzazione. Piccoli intratteneva rapporti con Battista uomo di Ortolani, di cui era amico da 30 anni. So che una volta fummo informati che Ortolani, attraverso Battista, aveva detto a Piccoli che controllava il gruppo. Fummo costretti io e Rizzoli ad andare da Piccoli, per smentire direttamente queste affermazioni. Allora Piccoli era segretario della DC.

Donat Cattin
Io e Rizzoli incontrammo Gelli nello studio di Donat Cattin, che era ministro dell’Industria. Era stato accompagnato da un certo Giasoli (ndt dovrebbe trattarsi di Ilio Giasoli), uomo di fiducia di Donat Cattin e grande amico di Gelli. nessun altro tipo di rapporto, se non di aiutare mi pare il figlio. Cosa che facemmo.

Cossiga
Quando era Presidente del Consiglio, Gelli si diceva molto vicino allo stesso, con cui usciva qualche volta a cena o colazione. Così diceva. Per certo era amico di Zanda-Loy, che era il capo gabinetto o capo ufficio stampa di Cossiga. Fu in quel periodo che Gelli ci mostrò, come il risultato di un suo interessamento, l’ottenimento di un nulla osta o di un’autorizzazione per l’emissione di francobolli da parte dell’Ordine di Malta. Confesso che è un problema che non ho seguito. So che Rizzoli, venne interpellato direttamente dal Cossiga. So che era un affare di cui non so descriverne i termini precisi, ma lo ritenevano molto importante ed era di interesse dell’Ordine di Malta e di Ortolani, per il quale il Gelli molte volte mi disse che era divenuto ambasciatore dello stesso ordine per merito suo.

Forlani
Diceva di essere suo amico. Non ho mai avuto modo di constatarlo direttamente, anzi nei nostri riguardi Forlani non aveva mai atteggiamenti favorevoli. Era amico del capo di gabinetto di Forlani, che diceva di controllare. Nell’ambito della corrente per certo diceva di avere il controllo di Badioli, che era il capo dell’Iccrea. Ciò diceva anche Ortolani che mi aveva detto di aver combinato una interessante operazione tra Badioli e Genghini per l’acquisto di una banca mi pare in Canada. Di certo anche che Badioli fece a me e a Rizzoli, nel corso di un incontro preciso riferimento agli “amici” ed ad una operazione per cui avrebbero dovuto mettere a disposizione diverse decine di miliardi del gruppo. Io so che nei miei contatti con Badioli non ho mai avuto vantaggi e anzi consideravo il personaggio persona modesta e di assoluta mancanza di correttezza nelle iniziative.

Andreotti
Ne parlava con grande stima. Diceva di vederlo qualche volta nel suo ufficio in piazza Montecitorio. Non mi ha mai detto niente che lo riguardasse. Io Andreotti lo trattavo direttamente senza alcuna connessione con Gelli, di cui credo di non avere mai parlato.

Per quanto riguarda direttamente altri rapporti vi può essere utile il dottor G. Rossi, nostro collaboratore per le relazioni esterne, che Gelli qualche volta chiamava per contatti o favori che chiedeva per certi personaggi politici di minor conto. Io non lo seguivo nemmeno, perché non consideravo importante questi questi piccoli servizi che il Rossi faceva per il Gelli. Ed anzi mi serviva per distoglierlo dall’interesse sul nostro gruppo, da cui volevo stesse lontano.

Partito Socialista
Il rapporto con questo partito da parte di Gelli si divideva in due tempi a mia conoscenza. Un primo periodo va fino al 1979 e il Gelli è vicino a certi uomini politici e contrario a Craxi e alla sua corrente. Dopo il 1979 fino al 1981 Gelli è favorevole a Craxi e ai suoi collaboratori. Posso riferire quanto segue.

Mancini G.
Io conobbi Mancini a casa sua invitato da Gelli e Cosentino, insieme a Rizzoli. Cioè Gelli e Mancini si conoscevano e Gelli ci presentò per far vedere che ci conosceva. Non ci chiese però mai nulla suo favore.

Nisticò
Gelli mi chiese una volta di dare 50 miloni mi pare e questo personaggio, che io non ho mai visto. Lasciai eseguire a Cereda questo incarico. Gelli mi disse per migliorare i rapporti del Gruppo con il Partito. Era un finanziamento perché questo signore aveva dei problemi.

Signorile
Gelli diceva di sostenerlo molto. Ma non so altro, se non che aveva rapporti con Battista ed Ortolani. Non lo conosco.

Mariotti
Gelli era molto amico di questo personaggio e mi costrinse praticamente a prenderlo come consulente per una trattativa relativa ad una rete televisiva con un certo Marcucci. Non l’ho mai visto, ma solo sentito due volte per telefono per questa consulenza.

Craxi
Gelli fino al 1979 aveva una avversione per questo uomo politico che dopo tramutò in apprezzamento, tanto che che mi diceva che bisogna sostenerlo. Non so i motivi del cambiamento. So che mi diceva di averlo visto due o tre volte.

Formica
Gelli lo vedeva spesso a colazione all’Excelsior negli ultimi due anni (così almeno lui mi diceva: infatti almeno 3 volte mi disse è uscito ora il ministro Formica). Ciò avveniva sempre dopo il 1979. Per questo fatto potete fare riferimento al Dr. Campironi, che ne era perfettamente al corrente. Mi disse anche che cercava di riparare ai guasti fatti dall’Ortolani nei rapporti con Formica.

Martelli
Gelli mi chiese due o tre volte di vederlo e di telefonargli. Cosa di cui non avevo bisogno perché lo conoscevo perfettamente. So che lo frequentava e che vi era stato portato e supportato da Trecca, amico di Martelli e di Gelli. Gelli nell’ultimo periodo mi rimproverò diverse volte la linea editoriale del Corriere nei rispetti dei socialisti e in particolare di Martelli (ricordo la questione del suo viaggio negli Stati Uniti) e mi ripeteva le stesse osservazioni che poi Martelli faceva direttamente a me e a Di Bella. Ortolani mi disse che da Ginevra Intercontinental Hotel dove Gelli era riparato in marzo, aprile, maggio 1981 aveva preavvisato telefonando a casa a Martelli che le situazioni riguardanti i conti all’estero delle ultime operazioni (io non sapevo di cosa si trattasse) era a posto. Basta controllare i telefoni e le telefonate della stanza di Gelli a questo Hotel in quel periodo per verificare.

Di Donna
Gelli insistette molto perché io lo vedessi. Lo chiamava Leonardo e diceva che dovevo aiutarlo per la faccenda Globo. Gelli mi aveva preannunciato per Globo una sua ipotesi che prevedeva una quota Di Donna, una quota Rizzoli e una quota Gelli e Ortolani. In ciò disse concordava con il Di Donna. Feci fare lo studio da Mucci e Iorio e discussi 4/5 volte con il Di Donna il Globo da un punto di vista del progetto editoriale (…). Poi lasciai andare perché consideravo non fattibile il progetto, anche se il Di Donna mi diceva che il valore del gruppo Eni (di cui parlava come se fosse suo) era enorme (…) e (in ciò era stato preannunciato da Gelli), un intervento dell’Eni per contribuire alla sistemazione del nostro gruppo di 100 miliardi non era un problema. In questa ottica ripeto lo vidi 4/5 volte a casa mia a Roma o al Grand Hotel. Gelli accennò a me e a Rizzoli diverse volte che aveva fatto combinare molti affari a Di Donna e Calvi. Senza però specificare i dettagli. Che ci precisò dolo a posteriori.

Manca
Mi fu portato a casa da Costanzo di cui era amico. Trecca mi disse che era vicino al Gelli ed era a disposizione per tutto quello che il gruppo avesse bisogno al ministero del commercio estero (mi pare che Manca fosse all’epoca ministro del commercio estero).

Aniasi
I rapporti sapevamo che esistevano da parte di Rossi, cui potete fare riferimento. Ricordo che chiedeva solo dei piccoli favori in occasione delle elezioni.

Partito Socialdemocratico
Longo
Gelli mi disse che qualunque cosa avessimo bisogno poteva intervenire su questo uomo politico. Cosa che non è una novità perché con Longo aveva rapporti diretti, di cui abbiamo già riferito alla magistratura.

Massari
Gelli lo considerava un suo adepto. Potete avere più dirette informazioni dal Rossi, perché io non ho mai avuto contatti.

Partito Repubblicano
Gelli non mi ha parlato di rapporti con questo partito, con i suoi rappresentanti.

Partito Liberale
Gelli non mi ha mai riferito di contatti con questo partito.

Partito Comunista
Gelli aveva nei discorsi che faceva con me solo profondo contrasto con questo partito e mi rimproverava le mie amicizie con alcuni suoi rappresentanti.

Altri personaggi o persone che Gelli diceva di conoscere oppure erano suoi amici non politici erano i seguenti industriali o banchieri o altre attività:
1) Editori
Berlusconi
Era molto suo amico e in diverse occasioni mi disse di fare degli accordi con lui sia nel settore della televisione che dell’editoria. Io conoscevo Berlusconi direttamente e questi in verità mi fece riferimento alla opportunità di un accordo nel quadro anche dei contatti che lui aveva con Gelli. Direi che non abbiamo mai fatto niente di concreto  nel periodo perché io diffidavo dello stesso proprio perché la raccomandazione mi veniva da Gelli.

D’Amato
E’ un direttore-editore di Roma. Anche egli era molto insistente e dovetti accettare come mi fosse presentato dal Gelli. Non feci mai niente con lui malgrado le insistenze.

Industriali o finanzieri
Bonomi Bolchini
Gelli diceva che era una sua grande amica, che aveva fatto l’accordo con Calvi nella sua stanza all’Excelsior e che lui la controllava.

Pesenti
Gelli diceva di controllarlo ed in effetti quando ebbi bisogno di un’anticipazione da una banca del Pesenti gli telefonai ed egli era pure perfettamente al corrente, perché fece riferimento proprio al Gelli per la concessione del prestito, che avvenne nel quadro di un accordo con Calvi. Mi diceva che l’accordo Pesenti-Calvi era l’ultimo affare che faceva e poi si ritirava a vita privata in Uruguay.

Erano persone che mi diceva potevano fare quello che lui voleva e presso i quali ho potuto constatare che gli erano vicini i seguenti banchieri:
Guidi Giovanni: A. delegato del Banco di Roma.
Ferrari: BNL. Questo era molto vicino anche ad Ortolani.
Bellei: Monte del Pegno di Bologna.
Cresti: Monte dei Paschi.

“Caso Miceli – Questo sì che è un memoriale” – L’Espresso 19.01.1975

Roma. Dall’ufficio padovano del giudice Tamburino sono arrivati ai magistrati romani gli ultimi dossier dell’istruttoria sulla Rosa dei venti: in tutto 16 casse di roba, tra reperti, documenti e le migliaia di pagine di atti che il giudice istruttore Filippo Fiore e il pubblico ministero Claudio Vitalone hanno cominciato ad esaminare a tappe forzate.
Sembrano già emersi buoni motivi per affermare che l’inchiesta di Tamburino non appare “inconsistente ed illogica”, come l’ha definita l’avvocato generale dello Stato Di Majo nella sua richiesta di scarcerazione di Miceli; ma ancorata a solide testimonianze ed a una serie di indizi, in una struttura ben più concreta di quanto la magistratura romana non avesse voluto immaginare.
Dalle prima indiscrezioni e dalle numerose testimonianze da noi raccolte tra i testi e gli imputati di questa indagine siamo in grado di costruire una prima cronistoria ragionata degli sviluppi dell’istruttoria sulla Rosa fino al momento in cui è stata (provvisoriamente?) troncata.

Quando, il 24 dicembre ’73, Giovanni Tamburino e Luigi Nunziante prendono in mano per 1a prima volta gli atti della Rosa dei venti (in pratica il dossier consegnato da Porta Casucci, con i piani eversivi ed i progetti di occupazione di intere città), sono scettici ed increduli. Su cosa possono basarsi simili progetti? E’ più facile immaginarli frutto di mitomania, o farneticazioni, che non credere in una “organizzazione” clandestina, ancora del tutto ignota, tale da programmare azioni di questa portata. Però, dopo aver esaminato il materiale e aver compiuto i primi interrogatori, un elemento colpisce l’attenzione dei magistrali, una ben percepibile “presenza militare” nella faccenda: la si nota nello stesso modo dì esprimersi degli imputati civili (“siamo ufficiali dì collegamento”, “gli ordini non si discutono”, “l’onore della patria e della bandiera”), e nelle modalità dell’organizzazione e dei collegamenti (numeri al posto dei nomi, uso di codici cifrati, eccetera).

E’ appunto un cifrario militare il primo elemento che fornisce a Tamburino la verifica che vi è qualcosa di concreto, e che lo spinge ad andare avanti.
Intatti a tre imputati Rampazzo, Rizzato e De Marchi, era stata trova tu la copia di un cifrario militare del 1959, Nonostante che i comandi consultati avessero affermato al magistrato che la ricerca dell’originale equivaleva a quella di un ago in un pagliaio, Tamburino riesce rapidamente a scoprire che il codice proveniva dalla caserma “Duca” di Montorio Veronese, dove un tenente colonnello, Amos Spiazzi. comandava l’ufficio Informazioni. D’altra parte il nome “Amos” figurava in un appunto sequestrato all’ex cassiere della Rosa, De Marchi: e da un’indagine indiziaria condotta a Verona, partita da alcuni numeri dì telefono, era risultato che una serie di personaggi collegati al gruppo eversivo avevano in comune l’amicizia con Spiazzi. Il 13 gennaio ’74, dopo una perquisizione in casa sua (dove viene trovato un arsenale di armi da guerra), il colonnello nero di Verona è arrestato.

Nel frattempo gli inquirenti esaminano due coupons di assegni circolari trovati nello studio di De Marchi; con veloce indagine bancaria (facilitata dall’esperienza dì ex impiegato di banca dì Tamburino) risalgono una serie di assegni firmati con falsi nomi e arrivano ad un ordinativo dì 20 milioni (del Banco di Chiavari) pagati dalla società “la Gaiana” (di Andrea Piaggio, amministrata da Attilio Lercari) a Spiazzi. Un elemento concreto da contestare al colonnello che negli interrogatori affermava tenacemente di non sapere niente e di non conoscere nessuno dei coimputati. Sempre in questo periodo, nel febbraio, un giovane imputato di 25 anni, Roberto Cavallaro, si decide a parlare. In un interrogatorio fiume durato dodici ore descrive l’organizzazione della Rosa dei venti (in cui, a suo dire, sarebbero coinvolti 86 ufficiali) racconta dei programmi, dei progetti di attentati, dei rapporti con i finanziatori genovesi, e soprattutto descrive una complessa rete di collegamento con l’estrema destra: la Valtellina, il Mar, Fumagalli, il gruppo eversivo torinese di Pomare e Micalizio, il nuovo Ordine nero (ed è la prima volta che il gruppo sorto dalle ceneri di Ordine Nuovo viene chiamato con questo nome). Inoltre Cavallaro ammette di aver usato un nome falso, di essersi spacciato per ufficiale mettendosi la divisa, e di aver compiuto una serie di azioni, e dice che era stato Spiazzi a dargli gli incarichi, nell’ambito di una “organizzazione” segreta.
I magistrati hanno dunque nuovi elementi per mettere Spiazzi alle strette. Il 6 aprile lo pongono a confronto con Cavallaro. Per due ore Spiaci tiene duro e finge di non conoscerlo. Poi crolla psicologicamente ed ammette alcune cose, trincerandosi però dietro una linea difensiva che riuscirà a tener in piedi per qualche tempo: l’organizzazione c’è, ma è legale e patriottica, ha lo scopo di combattere la “sovversione comunista” e di appoggiare e finanziare delle azioni “per il bene della patria”.

Ci sono però una serie di elementi che contrastano con tale versione. Se l’organizzazione è legale e legalitaria, come afferma Spiazzi, perché si avvale di modalità palesemente cospiratorie e di una struttura accuratamente clandestina? Inoltre i magistrati riescono a raccogliere altre testimonianze e confessioni di imputati. Per esempio, un teste ed un imputato, Orlandini e Rampazzo, raccontano chiedeva ai rosaventisti “azioni serie e concrete”, in pratica attentati; è infatti lui, aggiungono, il finanziatore della tentata strage sul treno di Nico Azzi.
Nell’aprile scorso Tamburino e Nunziante compiono un primo viaggio per chiedere al capo di Stato Maggiore, Henke, se è possibile che esista, a fianco delle forze armate, un’organizzazione legale “di sostegno” del tipo della Rosa.
Ed è proprio Henke a chiamare in causa Miceli, dicendo ai magistrati che il capo del Sid meglio di lui può dare chiarimenti in merito. Miceli si presenta, ma nega tutto e di chiarimenti non ne dà. Però in un secondo confronto Spiazzi-Cavallaro, ai primi di maggio, il tenente colonnello ammette di essersi mosso nell’ambito di un’organizzazione clandestina di cui fanno parte sopra di lui « alti ufficiali e importanti uomini politici ». E Spiazzi si dice scandalizzato del fatto che i suoi « superiori » non siano stati spinti « da doveroso senso dell’onore a farsi avanti per assumesi le proprie responsabilità». Inoltre, ed è la confessione fondamentale che permetterà ai magistrati di arrivare a Miceli, spiega da chi è stato “attivato” ad entrare nella Rosa « per collegarla ad ambienti militari e finanziari ». E’ il capitano dei carabinieri di Conegliano Veneto, uomo del Sid, Mauro Venturi, che gli impartì l’ordine cifrato per telefono. Spiazzi aggiunge che doveva rendere conto del suo operaio clandestino solo al superiore di Venturi, il colonnello Federico Marzollo, ex capo del Sid di Verona e segretario di Miceli, poi capo del Raggruppamento Centri C. S. di Roma.

Con i nuovi elementi in mano, il 27 maggio, i magistrati padovani tornano a Roma per interrogare l’ex capo dei Sid: Miceli nega di sapere niente sulla Rosa, su Spiazzi, e sugli altri ufficiali coinvolti, come il generale Nardella e il colonnello Dominioni, ma si rifiuta di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Sul generale Ricci, denunciato quale rosaventista da Spiazzi, Cavallaro e De Marchi, Miceli manderà addirittura un rapporto scritto che lo definisce « sicura figura di democratico ». Ma a settembre, quando Andreotti passa alla magistratura i dossier sui golpe, la situazione di Miceli precipita. Dai documenti e dai nastri registrati risulta che il Sid, contrariamente a quanto affermato da Miceli, era perfettamente al corrente delle attività della Rosa golpista. Miceli ripiega su una nuova linea di difesa: il mio vice, Maletti, non mi teneva al corrente di queste cose, dice.

Si arriva così ai primi di ottobre, al drammatico confronto Miceli-Maletti. Miceli tenta di far giocare anche a Maletti la carta dello scaricabarile: « Ma forse non sei stato informato da La Bruna (il capitano che lavora per l’ufficio “D” diretto da Miceli) gli suggerisce. Maletti però non abbocca, « La Bruna mi ha sempre informato, ed io ho sempre informato lei », risponde.
Subito dopo Tamburino, esaminando alcuni dossier del Sid passatigli da Casardi, ha la prova concreta delle menzogne di Miceli: un fascicolo datato settembre ’73 e intitolato “Contatti in corso tra il maggiore Spiazzi e l’avvocato De Marchi per l’organizzazione Gersi-Rosa dei venti”, contenente la minuziosa descrizione dell’attività eversiva del gruppo, è folto di appunti e disposizioni scritte a mano dallo stesso Miceli. Che vi siano elementi per affermare che non si tratti di semplice “favoreggiamento” è lo stesso Maletti a suggerirlo facendo notare ai magistrati che i rapporti tra Miceli e Marzollo (quello che aveva “attivato” Spiazzi) si muovevano su un terreno clandestino e anticostituzionale.

In questo senso i giudici padovani erano convinti che Miceli non fosse un “punto d’arrivo”, ma un “passaggio obbligato” che porta a responsabilità di uomini politici (vedi l’istruzione di Tanassi a Miceli di “dire il meno possibile” agli inquirenti), e si accingevano a muoversi in questa direzione. Inoltre Tamburino e Nunziante, contrariamente alla tesi avocatoria dei magistrali romani, sono convinti che la Rosa dei venti non è affatto un’emanazione del Fronte nazionale di Valerio Borghese, ma un’organizzazione autonoma, assai più importante, ed in concorrenza con i “vecchi ed ingenui” programmi del Fronte, che in alcuni casi continuava a sopravvivere parallelamente.

Mario Scialoja – L’Espresso 19.01.1975

“Adesso la faccio io l’inchiesta sulla P2” – intervista ad Andreotti su L’Europeo 27.12.1982

Gratti lo scandalo e trovi sempre l’onorevole Giulio. Sarà perché è uno dei democristiani più intramontabili, sarà perché la sua è l’immagine stessa del potere, Giulio Andreotti c’entra sempre. Non c’è vicenda scabrosa per la Repubblica che non finisca in una chiamata di correo per lui. Senza, peraltro, che nessuno riesca mai a trovare prove contro di lui. Qualche giorno fa la vedova del banchiere Roberto Calvi ha puntato il dito sostenendo che il marito disse che Andreotti era la mente occulta della loggia P2. E ha proseguito con altre gravi accuse. Secondo molti membri della commissione parlamentare d’indagine sulla loggia P2, Clara Calvi è quantomeno fedele testimone di quanto le confidava il marito. L’Europeo ha preparato un lungo e minuzioso elenco di domande: tutti i sospetti, tutte le stranezze, tutte le coincidenze che potrebbero sostenere la tesi della signora Calvi.

La signora Calvi proclama quello che molti membri della commissione P2 sussurrano: il capo occulto della loggia è lei…
«Ah, davvero? Invece io dico che questo capo bisogna continuare a cercarlo, perché ancora non si è fatto trovare. Voglio fare un piccolo atto di superbia. Vi pare che se mi facessi massone mi accontenterei di una loggia? Vorrei una carica molto più importante».

I collaboratori di Gelli l’hanno infatti definita «il grande babbo».
«Burloni».

La loggia P2 era un cenacolo di mattacchioni o una pericolosa associazione segreta?
«Questo della segretezza è uno degli aspetti che mi hanno più divertito. Ho letto che le iniziazioni avvenivano in un albergo, all’Excelsior. Singolare, no? Devo poi ancora capire se la polemica e le critiche vengono fatte contro persone responsabili di illeciti, o se le accuse sono rivolte alla massoneria in generale. Si dice ora: bisognava accertare se i candidati a cariche dello Stato fossero o non fossero massoni. Fino a due anni fa se un de avesse fatto certe proposte sarebbe successo l’iradiddio».

E tutti gli intrighi di Gelli?
«Già, si è fatta anche la distinzione tra massoni buoni e cattivi. I dirigenti venuti alla ribalta nell’ultimo periodo sembrano però coinvolti nella vicenda Calvi…».

Si riferisce ad Armando Corona, il nuovo gran maestro?
«Il suo sodalizio con quel Carboni (faccendiere di Calvi negli ultimi mesi, ndr) non mi pare proprio il segno di tempi nuovi, di una massoneria riveduta e corretta».

Perché, nel maggio 1981, dopo l’arresto del banchiere Calvi, lei incontrò la moglie Clara?
«Fu la signora a richiedere il colloquio».

Strano però che venisse accompagnata proprio da Giuseppe Ciarrapico, un suo fedele famiglio.
«Ciarrapico era amico di Calvi. Accompagnò la signora in quella veste, certo non su mio incarico». Nega di conoscere Ciarrapico? «Lo conosco come tanta altra gente. Ha un’attività tipografica importante a Cassino».

Clara Calvi già la conosceva?
«Da pochi giorni. Il 14 maggio la incontrai, accompagnata dal marito, a un pranzo al Circolo degli scacchi offerto dal senatore Giacometti. C’era moltissima gente…».

La vedova Calvi la smentisce. Sostiene che vi siete conosciuti molto tempo prima, in casa del finanziere Roberto Memmo.
«Se la signora si riferisce a una cena con la partecipazione dell’ex ministro americano del Tesoro Connolly, non posso escluderlo. Fu uno di quei ricevimenti all’americana, con centinaia di invitati. Certamente non la notai».

I familiari di Calvi sostengono che il banchiere aveva paura proprio di lei. Riferiscono frasi oscure di avvertimento dettegli da lei…
«Falsità. Però che strano: anche il senatore Tremaglia, durante la mia audizione davanti alla commissione P2, ha fatto accenni analoghi. Si riferiva alle registrazioni delle telefonate di Carboni a Calvi».

Si può sapere che cosa dicono quelle registrazioni?
«Nel corso di una telefonata, Carboni direbbe “il nemico è Andreotti”, o cose del genere. D’accordo con il Cardinal Casaroli, avrei impedito a Carboni non so che diavolo di contatti all’Istituto opere di religione. Vicende nelle quali mi guardo bene dall’immischiarmi».

Non è vero che lei confidò alla signora Calvi l’intenzione della Banca d’Italia di mandare i commissari? Che fece anche due nomi di suo gradimento, Bagnasco e Venini?
«Quale poteva essere la mia competenza istituzionale per sapere o addirittura decidere il commissariamento del Banco? La verità è .che la signora si congedò da me ringraziandomi calorosamente. Aveva chiesto consiglio un po’ dappertutto, ma l’avevano snobbata perfino al Banco Ambrosiano».

Se andò così, perché ora la signora le lancia accuse tanto gravi?
«Conosco poco la psicologia della signora. Non so se ha effettivamente dichiarato ai membri in trasferta della commissione P2 quanto si è letto sui giornali».

Dall’intervista televisiva di Enzo Biagi alla signora trasmessa da Rete Quattro si sarà fatto un’idea.
«Non l’ho vista».

Avrà letto il testo riprodotto da «la Repubblica»…
«No. Non mi interessa molto. Comincio a scocciarmi di queste storie. Esiste il segreto istruttorio, a causa del quale non posso conoscere gli atti ufficiali per i quali sono chiamato in causa. Però ci sono membri della commissione che ne discorrono liberamente. La scorrettezza di costoro ha superato ogni limite. Forse, attraverso la signora, qualcuno soffia per alzare polvere politica che oscuri autentiche responsabilità».

Ci sono accuse precise. Per esempio quel miliardo regalato lo scorso Natale da Calvi ad alcuni politici. Tra cui lei…
«Un miliardo è ancora un miliardo, come ai tempi del signor Bonaventura. Lascia tracce. Cerchino nella contabilità del Banco le prove per sostenere queste calunnie».

«Onorevole, stia tranquillo, perché tutta la documentazione di mio marito riguardante i politici è nascosta all’estero»: non le disse cosi Clara Calvi, su suggerimento di Ciarrapico?
«Non mi sono mai sognato di ascoltare frasi come questa».

Il suo asserito disinteresse per il Banco Ambrosiano non convince. Non è forse vero che lei incontrò più volte il finanziere Orazio Bagnasco, diventato poi azionista e vicepresidente?
«Questa è un’altra stupidaggine. Bagnasco è uno che se deve fare affari non ha certo bisogno dei consigli di chi fa politica».

Dopo la fuga all’estero di Calvi si apri una lotta di potere tra Bagnasco e l’altro vicepresidente, Roberto Rosone. Il solito Ciarrapico faceva da mediatore. Che autorità poteva avere se non quella di ambasciatore di Andreotti?
«Interpretazione del tutto gratuita. In quel periodo, tra l’altro, mi trovavo negli Stati Uniti per una sessione dell’Onu sul disarmo».

Appunto. Ciarrapico era il suo fiduciario…
«Ripeto che Ciarrapico godeva della fiducia di Calvi. Forse agiva in quella veste».

Oltre che alla sistemazione del Banco, Bagnasco era interessato alla proprietà del «Corriere della Sera». Chiese il suo aiuto, no?
«Del Corriere in effetti mi sono occupato. In quel momento, tuttavia, il problema del controllo del giornale non era legato all’assetto azionario del Banco».

C’era stato l’interessamento di Carlo De Benedetti, anche lui azionista e vicepresidente del Banco…
«Quella partecipazione azionaria, cosi come quella di Bagnasco, era limitata e non determinante per il destino del gruppo Rizzoli».

Quando e perché incontrò Calvi?
«Dopo essere uscito di prigione venne a trovarmi per ringraziarmi di avere ricevuto la moglie. In precedenza l’avevo visto fugacemente a un paio di pranzi, di cui uno al Circolo degli scacchi, come ho detto. Mi parlò subito del Corriere perché era convinto che i suoi guai fossero cominciati da quando aveva deciso di occuparsi del giornale e del gruppo Rizzoli. Mi raccontò che durante l’inchiesta per reati valutari gli erano state fatte domande sui motivi della nomina alla direzione di Franco Di Bella».

Diede a Calvi dei consigli?
«Anzitutto di evitare lo scorporo del Corriere delle Sera dalla Rizzoli, per non causare una crisi del gruppo editoriale».

Ne è ancora convinto?
«Lo scorporo può essere un punto d’arrivo, semmai. Calvi, comunque, mi parlò delle pressioni politiche molto forti che gli venivano fatte per il Corriere».

Da chi?
«Non fece nomi, e io non glieli chiesi. Crea imbarazzo sapere certe cose».

Ah! E dei guai del Banco non parlò con Calvi?
«Allora non sembrava troppo preoccupato. Era solo convinto di essere vittima di invidie».

Il complotto della finanza laica…
«Anche con Calvi ho cercato di ridimensionare questa distinzione tra finanza laica e non laica, che non credo fondata. Enrico Cuccia, per esempio, sarebbe il capofila dei laici, ma è cristiano ortodosso. Uno dei pochissimi in Italia, credo».

La liquidazione dell’Ambrosiano si sarebbe potuta evitare?
«Ho avuto l’impressione che ci sia stata troppa fretta».

Qualcuno ha voluto la disgregazione del Banco?
«Bisognerebbe conoscere tutti i dati di fatto per fare questa affermazione, e io non li conosco. In ogni caso, perché qualcuno non dà un’occhiata approfondita alle società estere? Non avranno per caso degli attivi, oltre che i passivi? Se si potesse recuperare una parte di questo danaro, ammesso che ci sia, dovrebbe essere restituito agli azionisti. Se poi per ipotesi lo Ior si facesse carico delle passività, allora dove starebbe l’insolvenza del Banco con un credito di quella entità? Manca ancora un quadro completo degli interessi finanziari che sono dietro le vicissitudini del Banco. Come mancano ancora tutti gli elementi per chiarire le circostanze della morte dell’ex presidente».

Non crede al suicidio?
«Calvi si mette in tasca le pietre; scende dal ponte, fa le acrobazie: saranno cose vere, ma non sono verosimili».

Allora l’assassino dove va cercato? Lei è un esperto di gialli…
«Già. Ma l’assassino si scopre all’ultima pagina. Nella storia di Calvi non ci siamo arrivati. Forse sarà bene approfondire un po’ i legami e le compagnie dell’ultimo periodo del banchiere».

Mettiamo, per esempio, il signor Francesco Pazienza, trafficante contiguo ai servizi segreti. Lei dovrebbe conoscerlo, visto che accompagnò Calvi qui da lei.
«Quando Calvi veniva era accompagnato sempre da guardaspalle che aspettavano fuori».

Conosceva Pazienza o no?
«Una volta me lo presentò il generale Santovito. Ma non avevo compreso il nome, e solo più tardi ho saputo che si trattava di lui. Se non sbaglio fu circa due anni fa, prima che Santovito lasciasse l’incarico al Sismi».

Il nome di Santovito fu ritrovato nella lista P2. Un segno dell’infiltrazione della loggia nello Stato.
«Questa è la tesi al centro di un recente convegno organizzato dal Pci. Ma prima che scoppiasse lo scandalo nessuno sapeva, nessuno si era accorto di niente. Nessuno vedeva i legami di Gelli non solo con il Sud America, ma anche con la Romania e un quarto del resto del mondo. Ora che l’ondata emotiva sulla P2 sembra finita, tocca alla commissione parlamentare tirare le conclusioni, senza cadere nella trappola di strumentalizzazioni politiche e parzialità».

La lista degli iscritti alla P2 secondo lei è parziale o completa?
«Questa storia della lista mi ha confermato che c’è qualcuno perennemente desideroso di tirarmi in mezzo ai pasticci. Nemmeno uno dei miei amici è in quell’elenco, ed ecco che dopo la pubblicazione salta subito su qualcuno a dire: vedete non ci sono gli andreottiam (e i comunisti), l’elenco è incompleto».

Miceli Crimi, un medico molto vicino a Gelli, non è stato smentito quando ha dichiarato all’«Europeo» che Gelli le dava del tu. E vero che per Natale le inviava anche certi regaloni?
«Mai dato del tu. In occasione del centenario di Leonardo (non so se facesse parte del comitato), Gelli mi inviò riproduzioni delle macchine leonardesche. Tutto qua. In seguito le ho regalate a mia volta…».

Le trovava ingombranti?
«Ma no, erano piccole. Mi hanno detto che erano d’argento. Magari avrei fatto meglio a tenermele».

Quando e in quale occasione ha conosciuto Gelli?
«Nel 1973, a casa di Juan Perón, che festeggiava il suo rientro ai vertici della politica argentina. Rimasi colpito dal riguardo quasi reverenziale per Gelli. Non sapevo chi fosse allora; mi sembrò un caso di somiglianza straordinaria con un direttore della Permaflex conosciuto fugacemente anni prima».

E come andò che Gelli vinse una commessa per 40 mila materassi con il suo aiuto?
«Che ignoranza delle cose! La stessa domanda mi è stata fatta in commissione P2. Tutte le aziende che impiantano stabilimenti nel Sud hanno per legge diritto a partecipare al 40 per cento delle commesse pubbliche».

Non favori in alcun modo la fabbrica diretta da Gelli?
«Una volta la società si lamentava di essere ostacolata dal ministero dell’Industria. Siccome per mia fortuna conservo sempre le carte, posso provare di essere intervenuto dopo la sollecitazione di altri».

Di chi?
«Del sindaco di Pistoia, dell’amministrazione provinciale e del compianto senatore Calamandrei (comunista, ex vicepresidente della commissione P2, ndr) che mi scrisse una lettera a mano di due pagine. Non so se fossero tutti amici di Gelli».

Che ci faceva tanto spesso Gelli a Palazzo Chigi, quando lei era presidente del Consiglio?
«Due o tre volte l’ho visto quando venne in Italia l’ammiraglio Massera, prima come capo della giunta militare argentina e poi quando fondò, nel suo paese, un nuovo partito socialdemocratico. Ancora, poi, per la visita in Italia del generale Videla».

E cosa faceva Gelli? Qual era il suo compito?
«Questioni protocollari. Si occupava per esempio dell’agenda — colloqui. Per Massera, ricordo, si diede da fare per consegnargli gli elenchi dei desaparecidos italiani. Gelli, insomma, faceva il lavoro di un diplomatico».

Le ha mai chiesto un occhio di riguardo del governo italiano per facilitare transazioni o forniture di armi?
«Assolutamente no, mai».

Fu lei a promuovere indagini sul suo conto?
«No. Non ho mai avuto la sensazione che fosse una persona importante».

Lei non sapeva che l’onorevole Foschi, come sottosegretario all’emigrazione, si interessava dei desaparecidos tramite Lido Gelli?
«Sapevo che se ne occupava, ma che ci fosse di mezzo Gelli no».

Parliamo del caso Eni-Petromin. Lei ha sempre sostenuto che, fino a quando non verrà provato qualche imbroglio, le tangenti pagate in quell’affare sono legittime.
«In questi casi vale l’opinione di chi tratta l’affare. Il presidente dell’Eni, Mazzanti, disse che la mediazione era una condizione indispensabile. Non era mica un costume nuovo; e l’affare era ottimo».

Non sapeva che di mezzo, ancora, poteva esserci Licio Gelli?
«Niente affatto».

Eppure Mazzanti è nella lista della P2, come molti altri protagonisti della vicenda.
«Mazzanti venne a spiegarmi di aver aderito alla loggia quando tutti lo attaccavano. Credeva così di trovare protezione, un aiuto in qualche canale di stampa. Un deputato lo avvicinò e gli offrì di portarlo da qualcuno che aveva voce in capitolo al Corriere della Sera».

Il deputato Emo Danesi?
«Credo fosse lui».

Insomma questa vicenda Eni- Petromin rimarrà un mistero?
«lo mi auguro di no. Anche perché il magistrato svizzero che se ne occupa ha ordinato il sequestro di una ingente documentazione bancaria sull’affare».

Interessante.
«Ho anche saputo che qualcuno ha fatto opposizione a questo provvedimento giudiziario».

La banca Pictet forse?
«No, qualcun altro».

Chi?
«Non me ne occupo. Per delicatezza. Certo sarebbe interessante saperne di più. Questa faccenda non l’ho mai digerita perché se n’è fatta una indecente speculazione i politica».

Quando scoppiò la polemica lei chiamò Umberto Ortolani, altro pezzo grosso della P2, per farsi spiegare le cose. Conferma?
«Sì. Mi disse di non conoscere nessun arabo saudita e di non essersi mai occupato di petrolio».

Eppure, sempre su questo argomento, Ortolani aveva avuto colloqui con il socialista Rino Formica.
«Mi confermò gli incontri con Formica, ma escluse che si fosse discusso di petrolio».

Secondo Clara Calvi, Ortolani era il numero tre della P2, dopo lei e Francesco Cosentino…
«Io lo incontrai la prima volta quando era presidente dell’Incis. Era il ’60 e dirigevo il comitato organizzatore delle Olimpiadi. Si decise di costruire il villaggio olimpico, che, dopo i giochi, sarebbe rimasto come complesso di abitazioni per gli impiegati dello Stato».

Tutti qui i suoi contatti?
«È una persona che si è sempre mossa in un certo ambiente. Era molto vicino a Tambroni. Era, nel mondo cattolico, un personaggio. Nella chiesa di San Petronio, a Bologna, ho visto una statua di Manzù che raffigurava il Cardinal Lercaro. C’è una scritta sotto: “Dono del cavalier Ortolani”. Può darsi che ora l’abbiano tolta».

Ortolani era anche ambasciatore dell’Ordine di Malta. Ne fa parte anche lei?
«Se intende dire che ho ricevuto una onorificenza dell’Ordine, sì. Di onorificenze ne avrò una quarantina. Ci hanno giocato i miei figli e ci giocheranno i miei nipoti».

«Critica Sociale» scrisse di una cena, verso il Natale 1970, a casa di Ortolani. Commensali: l’ospite, Gelli, Sindona e Andreotti.
«È una balla».

Ortolani è però diventato un personaggio importante in molti ambienti. Fece parte anche del consiglio di amministrazione della Rizzoli. Lei non lo sapeva?
«Naturalmente sì. Ma come ci fosse arrivato e quale fosse il suo ruolo, lo ignoro».

Era, ed è, anche molto ricco.
«La sua situazione economica mi sembrava piuttosto notevole. Ricordo anche però che una volta vendette all’asta tutti i suoi beni, qui a Roma. Aveva assunto su di sé i debiti di un giornale, fallito, che aveva fatto capo a Tambroni».

Ortolani discusse con Formica di un possibile riavvicinamento tra lei e Bettino Craxi…
«Un sacco di gente vorrebbe che io andassi più d’accordo con Craxi. Pare che i mali dell’Italia si risolverebbero. Nascono leggende di contatti segreti e iniziative parallele. Craxi fa parte della commissione esteri alla Camera, da me presieduta. Non servono mediatori».

Un altro luogo di mediazioni sarebbe il salotto della signora Angiolillo a Roma. Lei lo frequenta?
«La signora Angiolillo è una gentile padrona di casa. Talvolta invita a pranzo politici, diplomatici, uomini di cultura. Ci sono andato anch’io. È un’usanza simpatica, molto diffusa in altri paesi. Che poi sia una centrale di poteri occulti mi sembra un’interpretazione molto lontana dalla realtà».

Ha incontrato in quelle cene molti personaggi poi comparsi nell’elenco della P2?
«Ricordo sicuramente una volta di aver visto Bruno Tassan Din. Calvi, in casa Angiolillo, non lo ricordo. Lui snobbava piuttosto l’ambiente romano. Se c’era, non l’ho notato. Ortolani e Cosentino no».

Come mai lei era un obiettivo così frequente per la rivista «O.P.» di Mino Pecorelli?
Sono attacchi di cui non mi sono mai dato tanto pensiero. Ne ho avuti di peggiori».

Le risultava che Pecorelli fosse in contatto con Gelli?
«No».

Che Pecorelli fosse in contatto con ambienti dei servizi segreti?
«Questo si. Talvolta pubblicava notizie in campo militare che certamente gli venivano passate. So che era amico del generale Mino (ex comandarne dell arma dei carabinieri morto in un inciderne aereo, ndr). Me lo disse proprio Mino. Il generale aveva organizzato un incontro tra Pecorelli e alcuni militari che lui attaccava più di frequente, per cercare di farlo smettere».

E non si preoccupò di far cessare gli attacchi contro di lei?
«Ma no. Diceva poi delle cose talmente stupide. Una volta mi indicò come proprietario di appartamenti a Campo de’ Fiori; scrisse che facevo pagare affitti troppo alti».

Eppure Pecorelli la consultò per sapere come curare l’emicrania.
«Gli mandai un tubetto di Tonopan, un medicinale che uso talvolta. Con un biglietto. Il mondo degli emicranici è un mondo un po’ particolare. Ricevo anche tre lettere alla settimana, da persone che non conosco, sul tema».

Pecorelli insinuò che lei non fece bruciare tutti i fascicoli Sifar.
«Non solo li feci bruciare, creai una commissione, cercammo un forno adatto che si trovò a Fiumicino, ma nemmeno cedetti alla curiosità di leggere il mio fascicolo».

Dove qualcuno doveva aver notato la sua amicizia con Sindona.
«Amico mi pare un’esagerazione, lo conoscevo».

C’è chi osserva: Gelli aiutò Sindona, e Andreotti curò il progetto che avrebbe dovuto chiudere in modo indolore il crac di Sindona…
«Anche qui si è fatta molta confusione. Il recupero della situazione della Banca Privata, che poi andava a vantaggio non di Sindona ma degli azionisti, nulla avrebbe tolto dalle imputazioni di Sindona.

Sindona, poi, e questo è dimostrato, non ha avuto mai nessun trattamento di favore; anzi, per nessuno come per lui ci si è dati da fare per ciò che riguarda per esempio l’estradizione. E al ministero della Giustizia ne sanno qualcosa».

E il progetto di salvataggio?
«Era stato redatto anche da Enrico Cuccia, cosi mi dissero. E quando l’avvocato Guzzi mi portò il progetto mi chiese di farlo ricevere dalla Banca d’Italia insieme con il commissario liquidatore Ambrosoli e con Cuccia».

E lei lo accontentò?
«Volli prima esaminare la proposta. Pregai Gaetano Stammati di farlo per me. Lui era stato presidente della Comit. L’opinione di Stammati fu negativa e la cosa finì».

Anche Stammati, poi, finì nel listone di Gelli. Onorevole, lei è stato circondato dalla P2 senza saperlo, a quanto pare.
«Le proposte sui nomi, anche per servizi, vengono dal ministero competente, e d’accordo con i militari. Personalmente mi sono occupato del Cesis che faceva capo alla presidenza del Consiglio. Offrii l’incarico a due persone che non lo vollero fare: prima al prefetto Buoncristiano, poi al generale dei carabinieri Ferrara. Accettò il prefetto di Roma Napolitano, che poi lasciò per motivi di salute. Fu allora scelto Walter Pelosi che era prefetto di Venezia, segnalato dal Ministero dell’Interno. Ora si dà sfogo alla dietrologia, si vede la P2 dappertutto. Allora nessuno pensava a domandare: scusi lei è massone?».

“Andreotti: questa è la verità” – Il Mondo 20.06.1974

“Abbiamo scelto il nuovo capo del SID”, mi dice Giulio Andreotti, ministro della Difesa. Nel suo ufficio al primo piano di Palazzo Baracchini, in via XX Settembre, non arrivano rumori dall’esterno. Si sente solo un lieve ronzio di telefoni e di macchine operatrici. “E’ l’ammiraglio di squadra Casardi”, precisa. “E’ uno che non si è fatto raccomandare né da partiti né da ministri, come accade purtroppo anche in questioni del genere”. Andreotti apre un cassetto della scrivania e consulta l’annuario della Marina, un fascicolo rilegato dalla copertina azzurra.
Poi conferma: “E’ al limite della sua carriera e il servizio nel SID non potrà aprirgli altri vantaggi”. Sul SID piovono in questi giorni nuove accuse di disfunzioni, inefficienze, omissioni, coperture, complicità con gruppi eversivi.
Nato con un decreto del presidente della Repubblica del novembre 1965 per correggere le deviazioni del SIFAR, il SID sembra averne ripercorso puntualmente la strada.
Quando affiora un fatto torbido, dalle microspie installate da ignoti al palazzo di Giustizia di Roma, al rapimento del magistrato Sossi, dalla chiamata di correo degli ufficiali fascisti della Rosa dei Venti che vantano connessioni nei servizi di sicurezza, alla progressione impressionante dei 450 attentati dinamitardi nel solo 1973, ogni volta dalle nebbie delle indagini emerge il SID, informato ma reticente, presente ma equivoco, implicato nei maneggi devianti rispetto ai suoi compiti istituzionali. I campi paramilitari di Sabina furono denunziati alla Camera fin dal 30 ottobre 1969. Il traffico è continuato indisturbato per 5 anni. Nella tasca del terrorista ucciso, Giancarlo Esposti, è stata trovata la mappa aggiornatissima delle ubicazioni e degli orari dei posti di blocco dei carabinieri nelle zone più calde. Da tutti questi fatti ed episodi non emerge forse la conferma di un intrigo vasto e accuratamente portato avanti, che affonda le sue radici in meccanismi dell’apparato statale, che ne disarma la resistenza e ne inceppa le capacità di difesa e di reazione? E che accade in seno ed al vertice del SID, fulcro dei servizi segreti, costituzionalmente impegnato a garantire la sicurezza nazionale? La risposta è indiretta.
“Il 31 dicembre scorso”, riprende Andreotti, “ha maturato la promozione a generale di corpo d’armata l’attuale capo del SID, Miceli. In questo periodo si liberano due comandi di corpo d’armata, il quinto di stanza a Vittorio Veneto, l’altro a Milano. Il general Miceli vi andrà a ultimare il suo servizio di carriera”.
“Vuoi che ti dica il mio pensiero su alcuni comportamenti del SID?”, chiede Andreotti. “Il memoriale sui piani di Carlo Fumagalli, anello fondamentale della centrale terroristica del MAR, reso pubblico in due puntate dalla stampa di sinistra, l’ho fatto ricercare negli archivi del servizio. E’ risultato che il documento fu redatto da un informatore gratuito del SID che ora lo ha rimesso lui stesso in circolazione. L’informatore, nel frattempo, è passato, infatti, alle dipendenze della direzione affari riservati della PS. Ho chiesto al SID di chiarire tutte le circostanze. E’ stato emesso un comunicato pubblicato da tutti i giornali”, ricorda il ministro della Difesa.
“Il memoriale, a suo tempo, fu trasmesso alla magistratura che istruì un processo. Fumagalli fu, alla fine, prosciolto. Doveva bastare questo esito?”, si chiede Andreotti. “Dal SID mi hanno risposto che questo Fumagalli è stato un partigiano, anche se non comunista. L’ultimo 25 aprile l’hanno visto sfilare in piazza con il fazzoletto rosso al collo. Non potevano dargli addosso, mi dicono al SID. Se, poi, è stato in contatto con Feltrinelli, questo davvero non lo posso dire. A noi non risulta. La verità è che vi è in Italia un ceto ambiguo di eversivi per costituzione, impastati di rabbia e delusione, che è assai difficile da selezionare e quietare. Non è, comunque, da sottovalutare né da trascurare”.
“In un altro caso”, riprende Andreotti, “c’è stato un vero e proprio errore. E’ accaduto a proposito di quel Guido Giannettini, redattore del quotidiano del MSI, incriminato per la strage di Piazza Fontana, tuttora latitante”. In un articolo di fondo sulla rivista l'”Italiano”, Giannettini aveva scritto che “il colpo di Stato è un piatto che va servito caldo”. E infatti, dietro il fragore delle bombe del 12 dicembre 1969, il nome di Giannettini è emerso come quello di un personaggio assai informato, uomo chiave di tutta la sanguinosa vicenda. I giudici milanesi Fiasconaro ed Alessandrini ne parlano diffusamente nella loro requisitoria che accusa Freda e Ventura. Dopo molte esitazioni il SID aveva finalmente consegnato alla magistratura, durante l’inchiesta, un rapporto dal quale risultava con evidenza la pista nera delle bombe”. “E’ stato Giannettini ad informarvi e perché non avete subito dichiarato il contenuto del rapporto?”, chiesero i giudici al SID. “Non possiamo rispondere”, dissero gli uomini del SID, “perché si tratta di un segreto militare”. “Per decidere questo atteggiamento”, riprende Andreotti, “ci fu un’apposita riunione a palazzo Chigi. Ma fu un’autentica deformazione, uno sbaglio grave. Bisognava dire la verità: cioè che Giannettini era un informatore regolarmente arruolato dal SID e puntuale procacciatore di notizie come quella relativa all’organizzazione della strage”. Le parole di Andreotti chiariscono, per la prima volta, questo nodo critico. “Adesso”, prosegue Andreotti, “ho letto un’intervista concessa da Giannettini ad un quotidiano romano. Risulta che si trova a Parigi”. Andreotti guarda verso il telefono diretto, a sinistra della sua poltrona. Poi riprende: “Ho parlato con Beria d’Argentine, capo di gabinetto, che sono riuscito a trovare in sede al ministero della Giustizia. Gli ho chiesto: che diavolo aspettate per chiedere l’estradizione per Giannettini?”. Altro che errore per inefficienza, mi vien fatto di esclamare; qui siamo alla connivenza e all’omertà di stato. “C’è un’inefficienza dello stato da colmare”, ammette Andreotti smorzando il tono. “Di certe cose non sappiamo nulla. Su altre ritarda la verità. Di altre non sappiamo l’essenziale. A certe cose non riusciamo ancora a dare nomi e colore. Troppi compartimenti stagni. Troppi binari morti sui quali certe inchieste vengono instradate. per i servizi di informazione e di polizia non spendiamo certo poco”, osserva Andreotti. “Ma su questo terreno, la produttività statale in fatto di accertamento e denuncia della verità è tanto bassa da sbalordire”.
C’è sempre un’oscura faida fra corpi separati che blocca, distrae al momento opportuno, con comportamenti vari ma di esito univoco. ‘insabbiamento anziché la scoperta completa. “In effetti”, risponde il ministro, “oggi in Italia, al livello delle istituzioni, si sta diffondendo un gioco di società: il gioco dei cerini. E’ il tentativo infantile di chi spera di far passare il cerino di mano in mano, dal SID ai carabinieri, alla polizia, alla magistratura, sperando che solo l’ultima mano si scotti. Il Consiglio dei ministri non coordina, né indirizza. Di conseguenza, ad un cittadino che invade lo stadio olimpico durante una partita vengono dati otto mesi di condanna a tamburo battente, ma del tentativo di golpe Borghese ci siamo quasi dimenticati, senza essere riusciti a sapere se davvero si voleva o poteva fare una nuova marcia su Roma. La pericolosità di certe potenzialità non è passata. L’Italia”, continua Andreotti, “è zeppa di armi illegali come un uovo d’acciaio. Certe polemiche esasperate sul disarmo della polizia hanno di fatto nuociuto alla qualifica tecnica dei corpi. Sull’altro versante, quello delle attività terroristiche, mitra e tritolo spuntano dappertutto, in ogni grotta.
Non a caso le bombe esplodono a Brescia, dove le fabbriche di armi sono a portata di mano. Alla Beretta ho visto fucili mitragliatori leggerissimi tanto da potersi trasportare in borsa. Attentati contemporanei, come quelli sui treni non sono opera casuale allestita da dilettanti”.
Dunque vi è un disegno organico adeguatamente finanziato? “Mi potrò sbagliare”, riprende ancora il ministro della Difesa, “ma io non credo che il pericolo maggiore venga da personaggi come il colonnello Spiazzi che chiama in causa i servizi segreti. Stiamo seguendo con attenzione tutte le indagini giudiziarie e, qui alla Difesa, c’è un apposito ufficio con a capo il generale Malizia che controlla dati e risultanze. Nel complesso i casi nell’esercito risultano limitati, finora circoscritti. In Italia, ci sono certamente ispiratori, esecutori, finanziatori. Ma la manovra parte e viene diretta da più lontano”, conclude Andreotti.
Nel discorso del 10 maggio dell’anno scorso al congresso di Roma della DC hai detto, ricordo ad Andreotti, che le armi vengono anche dall’estero. “Sono tutto’ora convinto”, risponde, “che una centrale fondamentale, che dirige l’attività dei sequestri politici per finanziare i piani d’eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala anche europea, si trova a Parigi. Probabilmente sotto la sigla di un organismo rivoluzionario. L’ultimo sequestro in Argentina ha fruttato oltre 14 miliardi di lire. Per avere notizie di un sequestrato politico ci si è rivolti a Parigi. L’organizzazione consultata ha chiesto quarantott’ore di tempo ed ha fornito i contatti richiesti”.
Lo interrompe la chiamata roca ed insistente di un telefono. Poi Andreotti torna a guardarmi, aspettando nuove domande. Che pensate di fare?, gli chiedo. “Io stesso ho avanzato proposte legislative da adottare in materia di traffico d’armi e di tritolo e di riorganizzazione dei servizi di informazione e sicurezza. Il nuovo ispettorato è un passo avanti in una direzione che a me sembra giusta. Dobbiamo nominare anche il nuovo comandante della Guardia di Finanza, in sostituzione di quello attuale. La selezione fra gli alti gradi, tra le molte prerogative e fra le diverse qualifiche non è per nulla facile”.
C’è, dunque, una inadeguatezza, una insufficiente determinazione rispetto alla vastità dei problemi, resi più acuti dalla inquietudine profonda del paese, percorso da tensioni sociali difficilmente componibili, animato da spinte di rinnovamento. “E’ vero. Si accumulano problemi specifici, accantonati da decenni. Il dopo referendum è difficile per tutti”, conferma Andreotti. “Io non ho mai pensato che la DC potesse uscire vittoriosa dallo scontro. Avevo proposto il rimedio della legislazione su doppio binario, civile ed ecclesiastico. Mi fu risposto, anche dalla Chiesa, che la posizione era improponibile. Ho replicato che avremmo perduto ed ho sostenuto questa tesi dinnanzi a chi di dovere, al di qua ed al di là del Tevere. Adesso bisogna rivedere, aggiornare, non perdere tempo. L’allarme vale per tutti”.

“SID: e Birindelli interroga ancora” – OP 23.10.1974

Mentre si accentuano le polemiche sui servizi segreti, mentre gli accusati si palleggiano le responsabilità, tra un colpo di Stato e l’altro, tra una trama rossa e una nera, tra un dossier stralciato e uno stracciato, ecco l’amm. Birindelli presentare una nuova interrogazione al presidente del Consiglio per conoscere come mai lo stesso segreto militare che avrebbe impedito al gen. Miceli di difendersi dalle voci, dalle insinuazioni, dalle notizie apparse sulla stampa, non valga per il ministro della Difesa on. Andreotti che ha presentato il famoso dossier all’autorità giudiziaria.