Mentre si accentuano le polemiche sui servizi segreti, mentre gli accusati si palleggiano le responsabilità, tra un colpo di Stato e l’altro, tra una trama rossa e una nera, tra un dossier stralciato e uno stracciato, ecco l’amm. Birindelli presentare una nuova interrogazione al presidente del Consiglio per conoscere come mai lo stesso segreto militare che avrebbe impedito al gen. Miceli di difendersi dalle voci, dalle insinuazioni, dalle notizie apparse sulla stampa, non valga per il ministro della Difesa on. Andreotti che ha presentato il famoso dossier all’autorità giudiziaria.
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Almirante e Birindelli a Firenze – L’Unità 06.06.1972
(…) Il capo dei neofascisti, dunque, passate le elezioni e dimessa la veste «perbenistica» che si era imposto, è tornato a Firenze al linguaggio che era già stato usato dal MSI in occasione dei fatti di Reggio Calabria e di Catanzaro. «…Se il governo — ha detto — continuerà a venire meno alla sua funzione di Stato, noi siamo pronti a surrogare lo Stato. Queste non sono parole, e invito i nostri avversari a non considerarle tali». Il segretario dei missini, secondo il resoconto della Nazione, ha aggiunto che i fascisti «faranno suonare il campanello d’allarme ovunque, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole. Ai giovani diamo appuntamento per la riapertura dell’anno scolastico: o saremo presenti o per l’Italia saranno guai… I nostri giovani devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti, e siccome una volta sono stato frainteso —ha detto Almirante —, e ora desidero evitarlo, voglio sottolineare che quando dico scontro frontale intendo anche scontro fisico».
L’ex ammiraglio della NATO Birindelli, che ha parlato nello stesso comizio, ha detto che, «quando si agisce, uno comanda e gli altri ubbidiscono». Le forsennate affermazioni dei capi fascisti hanno provocato immediate reazioni negli ambienti romani, ed alcuni uomini politici hanno rilasciato dichiarazioni fortemente polemiche, contenenti anche richiami al governo ed al ministro degli Interni per una azione di vigilanza antifascista. In seguito a queste dichiarazioni, Almirante è tornato nuovamente sull’argomento con una dichiarazione ad una agenzia di stampa. Egli, in sostanza, ha confermato il resoconto pubblicato dalla Nazione, affermando che a Firenze egli ha invitato i suoi manipoli «a rappresentare la destra nazionale nelle scuole di ogni ordine e grado» e — ha soggiunto — «a saper difendere l’ordine e la libertà contro i sovversivi».
Il socialista on. Manca ha dichiarato che “il gravissimo e farneticante discorso pronunciato a Firenze dal fascista Almirante non può rimanere senza risposta da parte dello stato democratico e degli organi preposti a garantire la difesa delle libere istituzioni e l’osservanza delle leggi poste a difesa dell’ordinamento democratico e repubblicano». Questa volta, osserva l’esponente socialista, Almirante ha passato il segno: «anche chi pensava — ha soggiunto — di poter cinicamente utilizzare la destra fascista per le sue mire moderate vede ormai ristretto al minimo il suo gioco. Il presidente incaricato Andreotti non può sottrarsi, e con lui il partito di maggioranza relativa, al dovere di esprimere pubblicamente il suo pensiero di fronte all’aperto attacco fascista allo Stato democratico e repubblicano». I repubblicani, sulla Voce, hanno scritto che le dichiarazioni di Almirante costituiscono «una ragione di più per le forze di polizia e per il ministro dell’Interno che le dirige, di vigilare attivamente sulle bande fascista, per impedirne i movimenti e per stroncarne le operazioni generalmente vigliacche. E’ una ragione di più — prosegue il giornale del PRI — per la magistratura di chiudere rapidamente le decine e decine di casi giudiziari che vedono sul banco degli accusati dirigenti e iscritti del MSI». Da queste affermazioni i repubblicani partono per riproporre la loro tesi favorevole a un «gabinetto di emergenza», cioè con la partecipazione liberale. A proposito del discorso di Firenze del segretario del MSI, il giornale socialdemocratico l’Umanità scriverà oggi che le parole di Almirante sono frutto di «fredda determinazione alla guerra civile».
“C’è da chiedersi — afferma il giornale socialdemocratico — se al cinema Apollo di Firenze fosse presente domenica un funzionario di polizia; Lo mettiamo in forse, perché altrimenti oggi accanto al resoconto del discorso di Almirante, avremmo dovuto leggere la notizia di una denuncia all’autorità giudiziaria per incitamento alla guerra civile e al rovesciamento violente delle istituzioni della Repubblica. Ci auguriamo — scrive l’Umanità —, questa notizia, di leggerla domani”. Il giornale della DC, Il Popolo, scriverà oggi che le minacce di Almirante che «tutto questo armamentario tipicamente antidemocratico e fascista, rientra (…) nella logica, nelle origini e negli obiettivi del MSI”.
“E questi sono i nastri del SID” L’Espresso 14.07.1974
Roma. Il ministro della Difesa Giulio Andreotti la scorsa settimana è riuscito a farsi consegnare dagli uffici del SID le registrazioni delle conversazioni avvenute quattro anni fa fra il giornalista del “Corriere della Sera” Giorgio Zicari e i promotori del gruppo fascista MAR, Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando.
Una copia di queste registrazioni è venuta in nostro possesso. Anche se in alcune parti queste trascrizioni sono sunteggiate e in altre, forse, censurate, tuttavia da quel poco che resta emerge chiaramente che il SID sapeva già da quattro anni ciò che stava tramando Carlo Fumagalli, ed era anche a conoscenza dei suoi collegamenti con ambienti militari, e dei suoi finanziatori, fra i quali l’avvocato Adamo Degli Occhi.
Ma anche al momento di consegnare le trascrizioni, il SID ha dato prova di voler coprire e proteggere i mandanti dei terroristi neri, lasciando sorgere il dubbio che vi siano profonde infiltrazioni fasciste e responsabilità dirette del SID stesso. Infatti i responsabili del controspionaggio hanno avvertito Andreotti di aver distrutto questi quattro nastri, per cui non si saprà mai se i nomi fatti da Fumagalli sono stati tutti trascritti o se alcuni invece sono stati omessi.
Le registrazioni sono quattro e coprono un periodo di sei mesi dall’aprile al settembre ’70. La prima riguarda un colloquio tra Zicari e Gaetano Orlando, braccio destro di Carlo Fumagalli, avvenuto il 22 aprile 1970. Le altre registrazioni riguardano invece le conversazioni tra Zicari e Fumagalli. In totale la trascrizione dei nastri supera le cento pagine dattiloscritte. Eccone una sintesi.
22 aprile 1970. Conversazione tra Giorgio Zicari e Gaetano Orlando.
Orlando comincia parlando della necessità di procurarsi una potente radio trasmittente, per trasmettere da Trivigno (in provincia di Potenza) a Milano. Fa notare che per l’acquisto della radio ci sono due valutazioni, una che prevede una spesa di 700 mila lire e l’altra di 4 milioni. “Però siamo tutti d’accordo che deve essere una radio che possa essere trasportata continuamente in giro, per impedire la sua localizzazione. Abbiamo già esperienze in trasmissioni radio, perché poco tempo fa ne abbiamo realizzate a Genova”. Orlando passa poi a parlare degli attentati ai tralicci in Valtellina, indicando le varie località dove sono stati effettuati.
Zicari: “Di alcuni non se n’è mai avuto notizia. Come mai?”.
Orlando: “In effetti per alcuni non c’è stata pubblicità, però ci sono stati davvero. Forse la mancata pubblicità dipende dal fatto che i tralicci non sono caduti, dato che le esplosioni a volte hanno danneggiato solo i piloni della base”.
Poi Orlando passa a parlare del “gruppo della Versilia”, soffermandosi su un certo De Rainieri (rivelatosi intimo del medico Porta Casucci) e su “un ufficiale del SID, di nome Salcioli, che ci ha garantito adesioni nel servizio per i nostri programmi. Abbiamo già stilato il programma insurrezionale, sono ben 22 pagine”.
Zicari: “Cosa comprende?”.
Orlando: “Fa spavento. Comprende tutto, dall’A alla Zeta”.
Zicari: “Ma avete uomini?”.
Orlando: “Di uomini ce ne sono anche troppi. Non si tratta certo di quei quattro ragazzi che hanno incriminato per i manifesti da loro attaccati. A conti fatti, ce ne sono più di 100 mila. E’ gente decisa, questa. Il 25 aprile con un fucile a cannocchiale facciamo fuori Valsecchi. Per questa cosa ci vuole un ragazzo bruciato. Abbiamo già un fucile di precisione, un 22 col silenziatore. Gli altri fucili in nostro possesso sono dei Winchester. In Valtellina attacchiamo due caserme e facciamo un po’ di morti. Poi ci inseriamo subito nella Rai. Basterebbe tenere 60 uomini liberi per un mese, che la Valtellina alta la tengono da soli. Per 60 uomini ci vogliono 100 milioni. C’è già una mitragliatrice che provvede a un pezzo della statale 38, ma è poco. I contatti con Carlo (Fumagalli, ndr) avvengono sulla stessa lunghezza d’onda della stradale”.
Zicari: “Come pensate di fare?”.
Orlando: “Non facciamo la guerra, facciamo la guerriglia. Se attaccassimo frontalmente infatti ci schiaccerebbero. Bisogna convincere l’esercito, coinvolgerlo un po’ alla volta”.
Il colloquio termina parlando dell’avvocato Adamo Degli Occhi e di un certo De Sario.
Orlando: “Adamo s’è arrabbiato perché ha capito che c’è gente in doppio petto che non ha capito nulla e che è al di fuori della realtà. C’è già un comitato nazionale rivoluzionario, con dentro De Sario”.
Notte tra il 22 e il 23 aprile. Colloquio tra Zicari e Fumagalli.
Fumagalli parla del generale degli alpini Motta.
Fumagalli: “Mi trovavo a Roma con gli americani e l’ho tastato un po’. Lui era in pensione da due mesi e ha detto che non voleva mettersi nei guai. Mi ha detto: “non mi interesso più di niente””.
Poi il discorso va sui finanziamenti.
Fumagalli: “A Genova siamo già riusciti a ottenere qualcosa”.
Zicari: “Ma che cosa volete fare? Volete fare come Valpreda?”.
Fumagalli: “Macché Valpreda! Abbiamo gente alla segreteria del Senato che ci informa molto bene. Le bombe non le ha messe Valpreda. E’ stato il SID”.
Il discorso dopo Genova, si sposta su Padova e Treviso.
Fumagalli: “Ho parlato col colonnello Carmelo, del 3° Comiliter di Padova (o si tratta della terza armata, quella improvvisamente sciolta nel ’71, o si tratta del 5° Comiliter. A Padova infatti non esiste un 3° Comiliter, ndr). Ha interi magazzini pieni di mitragliatrici 38. Ho uomini anche a Treviso. Ho poi parlato con Birindelli”.
Zicari: “E che cosa ha detto?”.
Fumagalli: “Che ci sono molti ufficiali selezionati. Quelli di Padova e Treviso. Sono andato a Treviso, ho parlato con Carmelo e gli ho detto che non so neppure se è generale o colonnello. Gli dico: colonnello, non voglio mica finire in un campo di concentramento per tipi come lei. Mi dice che non possiamo sparare ai militari, neppure ai carabinieri, che bisogna aspettare. Ma dico, io, questa rivoluzione come la facciamo se non si spara?”.
Fumagalli passa poi a parlare degli attentati alle caserme e dei programmi riguardanti Mario Capanna, leader del Movimento studentesco.
Fumagalli: “Per me va lo stesso. Se vogliono che rapisca Capanna, rapisco Capanna. Se vogliono che lo ammazzi, va benissimo; ammazzo il Capanna”.
(Questa frase è importante, perché è una delle frasi dalle quali traspare, per bocca di Fumagalli, che c’è gente sopra di lui che gli dà ordini, ndr).
Fumagalli: “A Marsiglia c’è un anarchico, si chiama Bibbi, e a suo tempo organizzò un attentato contro Mussolini. Ha delle armi che sono la fine del mondo, ha del materiale meraviglioso. E’ tutta roba nuova, americana”.
(Sarebbe interessante assodare i rapporti tra l'”anarchico” Bibbi e l'”anarchico” Bertoli, che prima della strage di via Fatebenefratelli si ferma proprio a Marsiglia, ndr).
Fumagalli parla poi dei suoi rapporti con Strauss e la destra tedesca: è tornato da poco dalla Germania e da Lugano. Fumagalli: “Ho avuto una serie di incontri con quelli del Fronte europeo di liberazione. Sono molto attenti alla questione italiana, ce l’hanno a cuore. Bisogna essere seri e per essere seri bisogna coinvolgere delle persone in grado di far intervenire le forze armate. Da soli non ce la possiamo fare. Da solo non ce la fa nessuno”.
Zicari: “E l’intervento delle forze armate come lo ottenete?”.
Fumagalli: “Bisogna sfruttare il diffuso malcontento degli ufficiali. Ci vuole lavoro di infiltrazione e di propaganda. Un lavoro paziente e tenace”.
Zicari: “Ma questa gente sulla quale fate già conto, chi è? Sono quelli del MSI”.
Fumagalli: “No di certo quelli del MSI. La mattina vanno in giro col manganello e la sera vanno al cinema. Non è mica bello così. Per loro è solo una questione di coraggio individuale e prendono un sacco di botte in questo modo”.
Zicari: “Ma allora sono quelli di Lotta Continua”.
Fumagalli: “Ma no! Sono estremisti di centro, che la pensano esattamente come la penso io. Gente del tipo di Strauss. Ad ogni modo stia tranquillo che una parte dell’esercito c’è già”.
Zicari: “E come sarebbe a dire? E’ gente in pensione?”.
Fumagalli: “No, no. E’ gente in servizio. Il fatto è che anche i generali hanno le loro idee e hanno bisogno di contatti con l’esterno. Basta aiutarli, fornirgli i contatti, chiarirgli le idee”.
Il colloquio si chiude con delle recriminazioni di Fumagalli per le ripetute scoperte di armi del MAR da parte dei carabinieri. Alcune frasi portano Zicari a esclamare: “Ma lei ha dei sospetti verso di me?”. La frase resta senza risposta. Segue un altro nastro, del 14 settembre 1970. Si tratta di una registrazione mal riuscita. L’unica notizia importante è questa: “Nella prima quindicina di luglio il Fumagalli ha partecipato a Roma ad una riunione con un non meglio identificato gruppo. L’attività di tale gruppo consiste nel sovvertire legalmente il sistema. A detta riunione ha partecipato un osservatore tedesco del gruppo legato a Strauss.
Giuseppe Catalano – L’Espresso 14.07.1974
Gli iscritti alla P2 nel 1971 – estratto libro “I massoni in Italia”
(…) A quel tempo Gelli aveva già strutturato la P2 come un mondo del tutto separato dall’universo massonico ma presente, e ai più alti livelli, in ogni settore della vita pubblica, dei ministeri, delle banche e delle forze armate. La sede era in una palazzina di via Cosenza, a Roma, presidiata in permanenza dai fedelissimi generali Franco Picchiotti e Luigi De Sanctis. Lo schedario comprendeva nomi del calibro di Nicola Picella, segretario generale della presidenza della Repubblica e tra i politici erano stati arruolati Forlani, Stammati, il senatore democristiano Vincenzo Carollo, il deputato romano Umberto Righetti, i repubblicani Emanuele Terrana e Pasquale Bandiera, il socialista all’apice dell’ascesa Luigi Mariotti, l’ex ammiraglio Gino Birindelli, che lasciata l’uniforme era andato a intrupparsi nel Movimento sociale italiano ad alimentare i sogni di grandezza di Giorgio Almirante.
Il 30 per cento dei membri della P2 erano direttori generali o comunque alti funzionari di ministeri, enti pubblici e parapubblici: Luigi Samuele Dina, direttore generale del ministero della Difesa, Mario Besusso, direttore per la Cassa del Mezzogiorno, Aldo Fraschetti, ex direttore generale dell’Anas, Carlo Biamonti, dell’Enpas, Antonio De Capua, Ministero dell’Interno, Giuseppe Catalano, direttore della Banca d’Italia, Giuseppe Arena, ufficio italiano dei cambi. Pochi e non di primo piano i magistrati: Marco Lombardi, consigliere di corte d’Appello, Domenico Raspini, presidente del tribunale di Ravenna in compagnia di un altro ravennate, Edoardo Zambardino, del magistrato a riposo palermitano, Giuseppe Mannino e di Francesco Pinello e Giuseppe Del Pasqua.
Consistente e di buon peso la rappresentanza del mondo imprenditoriale, dove brillavano le stelle Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli. Seguivano l’industriale aeronautico Domenico Agusta, quelli dell’abbigliamento Vincenzo Monti e Mario Lebole (di questo Gelli sarebbe anche diventato socio), il titolare dell’industria elettronica romana Voxson, Umberto Ortolani, l’industriale del caffè, Giovanni Danesi, il presidente dell’Alsor-alluminio Sardegna, Giorgio Costa e l’armatore triestino Giorgio Vassilà.
L’architrave della P2 era però costituito da militari, vecchia passione e lucida intuizione di Gelli, che ne aveva capito l’importanza e valutato il peso nella vita della nazione molti anni prima che i grandi partiti popolari italiani cominciassero a esplorare quell’universo a loro completamente sconosciuto. Di militari nella P2 ce n’erano talmente tanti che avrebbero potuto riunirsi in una caserma. Dietro al massone della prima ora Saverio Malizia, in lista fin dal 18 dicembre 1961, stavano allineati e coperti Vito Miceli, fresco di nomina a capo del Sid, OSvaldo Minghelli, ufficiale di Pubblica Sicurezza, Renzo Apollonio, che sarebbe diventato presidente del tribunale militare dopo aver fatto un tentativo per arrivare al comando dei carabinieri, Siro Rosseti, di cui erano note le simpatie per il Partito comunista e che dirigeva il servizio informazioni dell’esercito, Antonino Anzà, aperto ai socialisti, che dopo aver comandato con abilità e saggezza il quinto corpo d’armata avrebbe cercato di diventare comandante dei carabinieri, o capo di stato maggiore dell’esercito o capo di qualunque altra cosa e sarebbe morto tragicamente, Paolo Gaspari, protagonista di una memorabile battaglia contro il generale Giovanni De Lorenzo. Scarsa la presenza dell’aeronautica, il cui uomo più in vista nella P2 era il generale Duilio Fanali.
Consistente quella dei carabinieri che oltre a Picchiotti allineavano Luigi Bittoni, che era stato capo di stato maggiore ai tempi di De Lorenzo, Igino Missori che comandava la divisione carabinieri Lazio e sarebbe diventato vice comandante dell’Arma, gli allora colonnelli Emilio e Umberto De Bellis, Giuseppe Cianciulli e Giuseppe Bernabò Pisu seguiti da un battaglione di maggiori e capitani.
La parte del leone la faceva però la guardia di finanza, altra furbissima intuizione gelliana. Le fiamme gialle avevano nella P2 i generali Fausto Musso, di Bolzano, e Salvatore Scibetta, di Roma, il colonnello Amedeo Centrone, di Perugia, tre tenenti colonnelli, Pietro Aquilino, Enzo Climinti E Roberto Manniello, i capitani Angelo Iaselli e Franco Sabatini, di Firenze, e Lino Sovdat, di Trento.
Un gruppo poderoso e presente praticamente ovunque davanti al quale la patetica P1 di Lino Salvini con i suoi mantelli e cappucci neri suscitava tenerezza e ilarità. (…) alla fine del 1971 il Gran Maestro nominò Gelli, fino ad allora factotum abusivo, segretario organizzativo della P2 (…). Poi consegnò lo schedario della P1 a Gelli: 450 nomi per lo più di medio livello. Il padrone della P2 non si contentò di questo ma pretese una procura scritta con la quale il Gran Maestro lo autorizzava formalmente a custodire lo schedario e in più gli delegava la sua più preziosa prerogativa: quella di poter iniziare segretamente nuovi fratelli.
Roberto Fabiani, “I massoni in Italia”, 1978
La P2 e gli estremisti neri toscani – commissione stragi
Altro esponente di rilievo nelle vicende terroristiche di quegli anni è Augusto Cauchi, iscritto al MSI, uomo di fiducia del “federale” di Arezzo, avvocato Ghinelli. Vanta rapporti informativi con i carabinieri di Arezzo tramite il maresciallo Cherubini, e con il capo centro SID di Firenze, colonnello Mannucci Benincasa, accusato di favoreggiamento nella sua fuga in Spagna da Delle Chiaie, e riceve sovvenzioni, anche durante la sua latitanza, da Licio Gelli. E’ al centro di una cellula dinamitarda che martorierà la tratta ferroviaria Firenze-Bologna negli anni 1973 e 1974.
A tutela del professor Oggioni, alla guida di una clinica privata, che fornirà un falso alibi a Luciano Franci allorché questi viene accusato (e condannato, in un primo processo, dalla Corte d’assise d’appello di Bologna), per la strage dell’Italicus, verrà opposto il segreto militare dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, sui legami tra Gelli, SID, Cauchi e Franci. Ma soprattutto, e la cosa non poteva sfuggire, il segreto venne opposto a tutela, oltre che di Oggioni, di Gelli, del SID, della P2 e degli autori di attentati dinamitardi interni ancora una volta al MSI e di evidente provenienza neofascista. Sarà il colonnello Lombardo, nume tutelare di Mannucci Benincasa, e vecchia espressione del SISMI nelle mani delle bande piduiste con cui non era mai entrato in conflitto, e successore del generale Notarnicola allorché verrà liquidato il gruppo di militari alle dipendenze del generale Lugaresi (notoriamente voluto dall’allora Presidente del Consiglio Spadolini e dal PCI per smantellare gli intrighi della gestione Pazienza-Santovito-Musumeci), ad apporre, di suo pugno, la frase riferita all’Oggioni «coprire ad ogni costo».
Eppure, come ricorda Brogi, Oggioni «[…] era amico di Franci, aveva rapporti con Cauchi ed era uno di cui noi ci si poteva fidare […]». Ma era anche amico di un altro terrorista nero, Batani, intimo di Cauchi, il quale, nel ricordare quanto gli aveva riferito Cauchi, di essere stato «messo in contatto col SID tramite il professor Oggioni», aggiungeva che «voleva collaborare con i Servizi nella prospettiva di un colpo di Stato». E si stupì quando Cauchi gli rivelò «che la notte dell’attentato di Moiano risultava ricoverato nell’ospedale del professor Oggioni un certo Batani Massimo. Io, ovviamente, ero altrove, e non ho mai saputo spiegare il senso e la consistenza di questa affermazione del Cauchi […]». Era dunque l’Oggioni una pedina fondamentale per assicurare, oltre che rapporti istituzionali e non, anche coperture in occasione di attentati. Oggioni era anche iscritto alla P2, ed era uno dei principali reclutatori, per conto della loggia, di vertici dell’Arma e del SID. Aveva stretti rapporti con Palumbo, Bittoni, Birindelli, tutti espressione della P2, ed era un assiduo frequentatore di villa Wanda. Si trattava, dunque, di notizie assolutamente preziose nelle indagini del giudice istruttore di Firenze dottor Minna, cui venne impedito l’accesso opponendo il segreto di Stato. Sarebbe risultato che fu lui a presentare Cauchi a Mannucci Benincasa, all’interno di un rapporto che legava Cauchi a Gelli, e che tra lui e Franci vi erano eguali rapporti di amicizia, per cui la copertura data al Franci in occasione della strage dell’Italicus rientrava in questa congerie di rapporti massonico-eversivi che faceva capo al SID, a lui ed a Licio Gelli.
Del resto, come ricorda lo stesso Luciano Franci, terrorista nero, egli fu impiegato dal «maresciallo Cherubini, che aveva rapporti con Batani e con Cauchi […] nella irruzione nella presunta sede di “Stella rossa” di Lucignano […] organizzata da Batani e Cauchi», in una collaborazione con l’Arma che riguardava anche il gruppo neofascista di Tivoli che faceva capo a Tisei, con scambio di saluti romani e militari. Ma dell’attività di Cauchi, compresi gli omicidi portati a termine su mandato del servizio segreto spagnolo, parleranno in molti: da Brogi, che con lui e con Zani portò a termine l’attentato dinamitardo all’altezza della stazione di Vaiano, a Vinciguerra, da Franci a Batani, da Maurizio Bistocchi a Gallastroni, da Orlando a Bumbaca, dal massone di piazza del Gesù Giovanni Rossi, alla Sanna, da Gubbini a Maurizio Del Dottore che, al pari di altri, riferisce come obiettivo di Cauchi «erano i mezzi di comunicazione» ed in particolare i «binari della tratta Firenze-Bologna» Anzi, gli precisò di avere fatto un sopralluogo in quella zona, ed aggiunse che «l’attentato doveva avvenire sulla ferrovia tra Firenze e Bologna […]. A Gelli e penso anche a Birindelli, fu detto chiaramente che eravamo un gruppo che si armava e che era pronto alla lotta armata nel caso di una vittoria delle sinistre al referendum […]. Gelli sapeva che eravamo pronti per la lotta armata e che gli chiedevamo finanziamenti, ma non gli fu detto nulla di singoli attentati, né di armamenti».
E l’ammiraglio Birindelli, poi parlamentare missino, successivamente interrogato dalla Corte d’assise di Bologna in riferimento ai collegamenti con il maggiore Pecorella, Licio Gelli ed i finanziamenti ai neofascisti Cauchi, Brogi, Batani, etc., ha ricordato di essere stato avvicinato in quel periodo da esponenti aretini neofascisti che gli chiesero cosa fare delle armi che avevano messo da parte. Ulteriore conferma che Gelli fosse il sovventore di quella micidiale banda armata neofascista viene ancora una volta da Brogi che riferisce che «fu il danaro datoci da Gelli a consentirci di acquistare le armi e l’esplosivo di Rimini». Che tutti gli attentati degli anni dal 1969 al 1975 fossero da ascrivere ad esponenti neofascisti, è provato anche da una serie di condanne definitive per fatti di eversione e di terrorismo di esponenti di quell’area, Mario Tuti, Fabrizio Zani, Jeanne Cogolli, Augusto Cauchi, Luciano Franci, Andrea Brogi, Benardelli e Di Giovanni. Ma anche tanti altri furono sorpresi in quegli anni a maneggiare esplosivo e tutti sono risultati appartenenti alla destra, eversiva e non, e rapidamente scarcerati o mai arrestati (i vari Borromeo e Spedini, D’Intino e Danieletti, Nardi e Ferri, Loi e Murelli, Negri Pietro, e Silvio Ferrari e quelli del gruppo MAR-Fumagalli, della “Rosa dei Venti” o della “Fenice”, la micidiale cellula veneta, e Giancarlo Esposti, sul punto di realizzare una terrificante progressione di attentati).
La fuga di Cauchi – Italicus bis
Questo, nella sua materialità, è sostanzialmente ammesso dallo stesso MANNUCCI BENINCASA, dapprima in un appunto agli atti del Servizio di data 20.12.77 inviato al Capo Reparto D e quindi nella sua dichiarazione al P.M. di data 20.2.82:
“…Della vicenda tra il Gen. BITTONI e l’Ammiraglio BIRINDELLI ho appreso dai giornali quindici giorni fa, quando è emerso nel processo di Bologna…Prendo atto che mi rendete edotto che l’Ammiraglio CASARDI nella sua veste di Capo del Servizio e Autorità Nazionale di Sicurezza certificava che il CAUCHI Augusto nel 1974 aveva avuto contatto telefonico con il nostro Ufficio e ritengo di poter chiarire che la comunicazione del Capo Servizio dovrebbe ripetere in realtà una nostra attestazione. Preciso il fatto: nell’ambito degli accertamenti sul gruppo di cui poteva aver fatto parte il BATANI riuscii a stabilire personalmente un contatto con il CAUCHI Augusto in Firenze. Nel nostro incontro in Firenze il CAUCHI avallò l’alibi del BATANI, di cui affermò l’estraneità per il fatto di Moiano. Il CAUCHI, circa il gruppo ORDINE NUOVO, affermava poi che esistevano degli ex appartenenti di ORDINE NUOVO che pensavano di riorganizzarsi, di non disperdersi, che però lui li considerava gente di nessun conto, un fenomeno irrilevante e comunque contrari alla sua posizione.
CAUCHI riaffermava di essere a tutti gli effetti dentro al M.S.I. e di essere rientrato nella linea politica del partito. Si dissociava dall’estremismo di destra. Ritengo che i miei incontri personali col CAUCHI fossero due, cercati da lui. Nel secondo incontro mi riferì di aver subito perquisizione per l’omicidio di un giovane di Cortona, Donello GORGAI, come ora lei mi specifica. Non sono in grado di ricordare se il CAUCHI ammettesse che il FRANCI e il MALENTACCHI erano suoi amici o membri del gruppo. Parlando degli ex ordinovisti parlava di individui di Perugia o Roma. Non fece nomi specifici e non indicò i fratelli CASTORI.
Del BROGI disse che, oltre ad essere ladro, era un “balordo”. Costui era andato in giro per le federazioni M.S.I. anche dell’Emilia, dormendoci dentro, chiedendo soldi per fare servizi. E disse che nelle federazioni dove aveva soggiornato il BROGI erano poi scoppiati dei “casini”, tanto che lui poi si era preoccupato di informare le federazioni del partito che il BROGI era sospetto come provocatore. Per quanto ricordo i miei incontri col CAUCHI avvenivano prima dell’attentato all’ITALICUS.
Quando nel gennaio 1975, dopo il 23 se non erro, il gruppo di Arezzo andò sotto pressione con l’arresto del FRANCI e del MALENTACCHI, cercai, anzi sperai che il CAUCHI si facesse vivo.
Una sera sul tardi il CAUCHI cercò il contatto telefonico con me e disse che ritelefonerà di lì a breve. Gli feci dire di lasciare un numero di telefono e infatti lasciò un numero che corrispondeva ad un telefono dentro le ferrovie di Milano. Lo richiamai li e lui mi disse che lo stavano puntando, ma che lui non c’entrava niente e cercavano di coinvolgerlo. Mi chiese se io potevo metterlo in contatto con l’A.G., intuitivamente di Arezzo.
Gli consigliai di mettersi in contatto con l’A.G. per chiarire la sua estraneità, mi annunciò che l’avrebbe fatto ci accordammo per una sua telefonata l’indomani. Io personalmente mi recai ad Arezzo e incontrai in carcere non avendolo trovato in ufficio, il Dr. MARSILI, al quale dissi di questa possibilità, che il CAUCHI cercava mio tramite un contatto per dimostrare la sua estraneità. Il Dr. MARSILI si dimostrò felicissimo della prospettiva, e mi autorizzò a combinare l’incontro, che invece poi non avvenne, perchè il CAUCHI non si fece più trovare… Per quanto concerne la posizione del noto GELLI, posso dire che, dopo un certo tempo che ero arrivato al mio ufficio, sulla base di precedenti d’archivio, mi feci l’impressione che detto personaggio fosse assai meno affidabile di quanto l’opinione comune volesse far apparire…”.
Come ben si nota il MANNUCCI BENINCASA aveva ricevuto dallo stesso CAUCHI -latitante- l’indicazione di un’ utenza telefonica della stazione ferroviaria di Milano presso la quale sarebbe stato (e fu effettivamente) reperibile e, nonostante l’evidente facilità di pervenire alla cattura del latitante, non fece assolutamente nulla per conseguire tale risultato. Non fece che riferire l’ indomani al P.M. MARSILI che il CAUCHI desiderava un contatto “per dimostrare la sua estraneità”.
A dire del MANNUCCI BENINCASA, come si è notato, il dr. MARSILI si dimostrò felicissimo della prospettiva. Ponti d’ oro, dunque, per la fuga del CAUCHI.
Tanto più che questi, protetto al punto di venire preavvertito dell’ emissione nei suoi confronti di ordine di cattura, finanziato dal GELLI nei propri traffici di armi ed esplosivi, intimo di militari di grado elevato quali il Gen. Mario GIORDANO, sodale di altri affiliati di Ordine Nero, a loro volta forniti di robuste protezioni all’ interno delle forze di polizia (si pensi a Bruno Luciano BENARDELLI), se catturato, avrebbe potuto determinare situazioni compromettenti per molti.
Circa la vicenda CAUCHI resta da capire soltanto per quali motivi l’informativa concernente i rapporto CAUCHI-MANNUCCI BENINCASA risalga al 1977 e non vi sia agli atti del Servizio una documentazione contemporanea al tempo in cui il rapporto in questione era in fase di svolgimento.
Sentenza ordinanza Italicus bis pag 255-256
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