“Caso Miceli – Questo sì che è un memoriale” – L’Espresso 19.01.1975

Roma. Dall’ufficio padovano del giudice Tamburino sono arrivati ai magistrati romani gli ultimi dossier dell’istruttoria sulla Rosa dei venti: in tutto 16 casse di roba, tra reperti, documenti e le migliaia di pagine di atti che il giudice istruttore Filippo Fiore e il pubblico ministero Claudio Vitalone hanno cominciato ad esaminare a tappe forzate.
Sembrano già emersi buoni motivi per affermare che l’inchiesta di Tamburino non appare “inconsistente ed illogica”, come l’ha definita l’avvocato generale dello Stato Di Majo nella sua richiesta di scarcerazione di Miceli; ma ancorata a solide testimonianze ed a una serie di indizi, in una struttura ben più concreta di quanto la magistratura romana non avesse voluto immaginare.
Dalle prima indiscrezioni e dalle numerose testimonianze da noi raccolte tra i testi e gli imputati di questa indagine siamo in grado di costruire una prima cronistoria ragionata degli sviluppi dell’istruttoria sulla Rosa fino al momento in cui è stata (provvisoriamente?) troncata.

Quando, il 24 dicembre ’73, Giovanni Tamburino e Luigi Nunziante prendono in mano per 1a prima volta gli atti della Rosa dei venti (in pratica il dossier consegnato da Porta Casucci, con i piani eversivi ed i progetti di occupazione di intere città), sono scettici ed increduli. Su cosa possono basarsi simili progetti? E’ più facile immaginarli frutto di mitomania, o farneticazioni, che non credere in una “organizzazione” clandestina, ancora del tutto ignota, tale da programmare azioni di questa portata. Però, dopo aver esaminato il materiale e aver compiuto i primi interrogatori, un elemento colpisce l’attenzione dei magistrali, una ben percepibile “presenza militare” nella faccenda: la si nota nello stesso modo dì esprimersi degli imputati civili (“siamo ufficiali dì collegamento”, “gli ordini non si discutono”, “l’onore della patria e della bandiera”), e nelle modalità dell’organizzazione e dei collegamenti (numeri al posto dei nomi, uso di codici cifrati, eccetera).

E’ appunto un cifrario militare il primo elemento che fornisce a Tamburino la verifica che vi è qualcosa di concreto, e che lo spinge ad andare avanti.
Intatti a tre imputati Rampazzo, Rizzato e De Marchi, era stata trova tu la copia di un cifrario militare del 1959, Nonostante che i comandi consultati avessero affermato al magistrato che la ricerca dell’originale equivaleva a quella di un ago in un pagliaio, Tamburino riesce rapidamente a scoprire che il codice proveniva dalla caserma “Duca” di Montorio Veronese, dove un tenente colonnello, Amos Spiazzi. comandava l’ufficio Informazioni. D’altra parte il nome “Amos” figurava in un appunto sequestrato all’ex cassiere della Rosa, De Marchi: e da un’indagine indiziaria condotta a Verona, partita da alcuni numeri dì telefono, era risultato che una serie di personaggi collegati al gruppo eversivo avevano in comune l’amicizia con Spiazzi. Il 13 gennaio ’74, dopo una perquisizione in casa sua (dove viene trovato un arsenale di armi da guerra), il colonnello nero di Verona è arrestato.

Nel frattempo gli inquirenti esaminano due coupons di assegni circolari trovati nello studio di De Marchi; con veloce indagine bancaria (facilitata dall’esperienza dì ex impiegato di banca dì Tamburino) risalgono una serie di assegni firmati con falsi nomi e arrivano ad un ordinativo dì 20 milioni (del Banco di Chiavari) pagati dalla società “la Gaiana” (di Andrea Piaggio, amministrata da Attilio Lercari) a Spiazzi. Un elemento concreto da contestare al colonnello che negli interrogatori affermava tenacemente di non sapere niente e di non conoscere nessuno dei coimputati. Sempre in questo periodo, nel febbraio, un giovane imputato di 25 anni, Roberto Cavallaro, si decide a parlare. In un interrogatorio fiume durato dodici ore descrive l’organizzazione della Rosa dei venti (in cui, a suo dire, sarebbero coinvolti 86 ufficiali) racconta dei programmi, dei progetti di attentati, dei rapporti con i finanziatori genovesi, e soprattutto descrive una complessa rete di collegamento con l’estrema destra: la Valtellina, il Mar, Fumagalli, il gruppo eversivo torinese di Pomare e Micalizio, il nuovo Ordine nero (ed è la prima volta che il gruppo sorto dalle ceneri di Ordine Nuovo viene chiamato con questo nome). Inoltre Cavallaro ammette di aver usato un nome falso, di essersi spacciato per ufficiale mettendosi la divisa, e di aver compiuto una serie di azioni, e dice che era stato Spiazzi a dargli gli incarichi, nell’ambito di una “organizzazione” segreta.
I magistrati hanno dunque nuovi elementi per mettere Spiazzi alle strette. Il 6 aprile lo pongono a confronto con Cavallaro. Per due ore Spiaci tiene duro e finge di non conoscerlo. Poi crolla psicologicamente ed ammette alcune cose, trincerandosi però dietro una linea difensiva che riuscirà a tener in piedi per qualche tempo: l’organizzazione c’è, ma è legale e patriottica, ha lo scopo di combattere la “sovversione comunista” e di appoggiare e finanziare delle azioni “per il bene della patria”.

Ci sono però una serie di elementi che contrastano con tale versione. Se l’organizzazione è legale e legalitaria, come afferma Spiazzi, perché si avvale di modalità palesemente cospiratorie e di una struttura accuratamente clandestina? Inoltre i magistrati riescono a raccogliere altre testimonianze e confessioni di imputati. Per esempio, un teste ed un imputato, Orlandini e Rampazzo, raccontano chiedeva ai rosaventisti “azioni serie e concrete”, in pratica attentati; è infatti lui, aggiungono, il finanziatore della tentata strage sul treno di Nico Azzi.
Nell’aprile scorso Tamburino e Nunziante compiono un primo viaggio per chiedere al capo di Stato Maggiore, Henke, se è possibile che esista, a fianco delle forze armate, un’organizzazione legale “di sostegno” del tipo della Rosa.
Ed è proprio Henke a chiamare in causa Miceli, dicendo ai magistrati che il capo del Sid meglio di lui può dare chiarimenti in merito. Miceli si presenta, ma nega tutto e di chiarimenti non ne dà. Però in un secondo confronto Spiazzi-Cavallaro, ai primi di maggio, il tenente colonnello ammette di essersi mosso nell’ambito di un’organizzazione clandestina di cui fanno parte sopra di lui « alti ufficiali e importanti uomini politici ». E Spiazzi si dice scandalizzato del fatto che i suoi « superiori » non siano stati spinti « da doveroso senso dell’onore a farsi avanti per assumesi le proprie responsabilità». Inoltre, ed è la confessione fondamentale che permetterà ai magistrati di arrivare a Miceli, spiega da chi è stato “attivato” ad entrare nella Rosa « per collegarla ad ambienti militari e finanziari ». E’ il capitano dei carabinieri di Conegliano Veneto, uomo del Sid, Mauro Venturi, che gli impartì l’ordine cifrato per telefono. Spiazzi aggiunge che doveva rendere conto del suo operaio clandestino solo al superiore di Venturi, il colonnello Federico Marzollo, ex capo del Sid di Verona e segretario di Miceli, poi capo del Raggruppamento Centri C. S. di Roma.

Con i nuovi elementi in mano, il 27 maggio, i magistrati padovani tornano a Roma per interrogare l’ex capo dei Sid: Miceli nega di sapere niente sulla Rosa, su Spiazzi, e sugli altri ufficiali coinvolti, come il generale Nardella e il colonnello Dominioni, ma si rifiuta di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Sul generale Ricci, denunciato quale rosaventista da Spiazzi, Cavallaro e De Marchi, Miceli manderà addirittura un rapporto scritto che lo definisce « sicura figura di democratico ». Ma a settembre, quando Andreotti passa alla magistratura i dossier sui golpe, la situazione di Miceli precipita. Dai documenti e dai nastri registrati risulta che il Sid, contrariamente a quanto affermato da Miceli, era perfettamente al corrente delle attività della Rosa golpista. Miceli ripiega su una nuova linea di difesa: il mio vice, Maletti, non mi teneva al corrente di queste cose, dice.

Si arriva così ai primi di ottobre, al drammatico confronto Miceli-Maletti. Miceli tenta di far giocare anche a Maletti la carta dello scaricabarile: « Ma forse non sei stato informato da La Bruna (il capitano che lavora per l’ufficio “D” diretto da Miceli) gli suggerisce. Maletti però non abbocca, « La Bruna mi ha sempre informato, ed io ho sempre informato lei », risponde.
Subito dopo Tamburino, esaminando alcuni dossier del Sid passatigli da Casardi, ha la prova concreta delle menzogne di Miceli: un fascicolo datato settembre ’73 e intitolato “Contatti in corso tra il maggiore Spiazzi e l’avvocato De Marchi per l’organizzazione Gersi-Rosa dei venti”, contenente la minuziosa descrizione dell’attività eversiva del gruppo, è folto di appunti e disposizioni scritte a mano dallo stesso Miceli. Che vi siano elementi per affermare che non si tratti di semplice “favoreggiamento” è lo stesso Maletti a suggerirlo facendo notare ai magistrati che i rapporti tra Miceli e Marzollo (quello che aveva “attivato” Spiazzi) si muovevano su un terreno clandestino e anticostituzionale.

In questo senso i giudici padovani erano convinti che Miceli non fosse un “punto d’arrivo”, ma un “passaggio obbligato” che porta a responsabilità di uomini politici (vedi l’istruzione di Tanassi a Miceli di “dire il meno possibile” agli inquirenti), e si accingevano a muoversi in questa direzione. Inoltre Tamburino e Nunziante, contrariamente alla tesi avocatoria dei magistrali romani, sono convinti che la Rosa dei venti non è affatto un’emanazione del Fronte nazionale di Valerio Borghese, ma un’organizzazione autonoma, assai più importante, ed in concorrenza con i “vecchi ed ingenui” programmi del Fronte, che in alcuni casi continuava a sopravvivere parallelamente.

Mario Scialoja – L’Espresso 19.01.1975

Giuseppe Niccolai – “Dal bandito Giuliano al generale Maletti”

Maletti e La Bruna. La grande stampa ha dimenticato che a prendere, fin dall’inizio, le difese di questi due ufficiali del SID fu il PSI, in particolare l’on. Mancini. Quest’ultimo, in occasione del Convegno delle Regioni meridionali svoltosi a Catanzaro il 17-2-1977 ebbe modo di fare pubblica apologia del SID rappresentato da Maletti e La Bruna.
C’è di più. Erano Maletti e La Bruna ad informare l’ex senatore Iannuzzi che, dalle colonne di “Tempo illustrato”, in parallelo con Mancini, combatteva la battaglia per rifare «da sinistra» la verginità di Andreotti con il ripescaggio del cosiddetto golpe Borghese.
Comunque nulla di nuovo sotto il sole. Maletti e La Bruna, fra contorsioni terribili per non dire come stanno le cose, una «costante storica» della Repubblica italiana l’hanno confermata. E cioè che il potere politico di vertice sapeva e sa tutto e, come al solito, per i suoi luridi giochi di potere si è sempre servito di tutti e di tutto: del SID, degli Affari Riservati, della Polizia, dei Carabinieri. E, nel mezzo, squallidi personaggi, ai quali, guitti autentici, per coprire il regime e i personaggi di vertice, si fa assumere il rango di protagonisti.
Ma si tratta di un vecchio copione. Fu utilizzato, per la prima volta, esattamente ventisette anni fa, la mattina del 5 luglio 1950 quando la radio di Stato, alle sette della mattina, trasmise che il bandito Giuliano, « nel tentativo di espatriare con un aereo straniero», era rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri guidati dal capitano Parerze.
Tutto falso. Giuliano era stato ucciso nel sonno. E ad ucciderlo era stata la mafia, quella mafia alla quale si chiedeva, per la seconda volta, aiuto. La prima volta per aiutare, d’accordo con il gangsterismo nord americano di origine mafiosa, lo sbarco alleato; la seconda per sbarazzarsi di Giuliano che, divenuto troppo ingombrante per i segreti che custodiva, doveva venire eliminato. Guai se Giuliano fosse stato catturato vivo!
E così fu. Solo che i vertici politici inventarono, per la pubblica opinione italiana, il falso conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, conflitto a fuoco che mai ci fu. E se si fa caso che alle spalle di Giuliano vivo c’era una «strage», quella di Portella della Ginestra, e che su questa «strage» la verità non si è mai saputa (sono passati trenta anni!), non è certo azzardato affermare che anche le successive «stragi» (Piazza Fontana, Brescia. Italicus) portano, come caratteristica di fondo, gli stessi ingredienti che emergono in Sicilia 27 anni fa.
Maletti e La Bruna, distributori di passaporti falsi. E perché con Giuliano vivo, non avveniva lo stesso?
Il bandito Ferretti, detto Fra’ Diavolo, pluriomicida, non aveva forse un lasciapassare ufficiale con il quale girava tutta la Sicilia?
SID e Affari Riservati: si accusano. Vicendevolmente. E delle azioni più spaventose. Addirittura di avere piazzato bombe.
Forse che in Sicilia, agli inizi dello Stato repubblicano quando le trame nere non erano di moda come adesso, accadeva qualcosa di diverso?
Polizia e Carabinieri non si ammazzavano… scambievolmente i propri confidenti? E, leggendo i rapporti del generale dei carabinieri Amedeo Branca in relazione ai comportamenti degli Ispettori di polizia Messana e Verdiani che quadro si ha, se non quello di una guerra aperta fra polizia e arma dei carabinieri?
Il Capitano La Bruna dichiara: non parlo più, ne va della mia vita. Forse il clima di 27 anni fa era diverso?
Il luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, che pur era rimasto mesi nascosto in casa di un capitano dei carabinieri a Palermo, non viene raggiunto in carcere dalla «stricnina» perché taccia per sempre?
Afferma il Generale Maletti: fu il Presidente del Consiglio Rumor e i ministri dell’Interno e della Difesa Taviani e Tanassi a far si che il silenzio sui rapporti fra il giornalista Giannettini e il SID fosse mantenuto.
Quale meraviglia? E chi fu ad impedire nel 1950 al Procuratore Generale di Palermo, dott. Pili, di aprire un’inchiesta sulla morte del bandito Giuliano?
E come fu ricompensato il Pili della sua inattività? Non fu nominato dall’on. Restivo, allora Presidente della Regione siciliana, consulente giuridico della regione?
E il caso del giornalista De Mauro? E l’assassinio del Procuratore Scaglione? E la morte misteriosa del petroliere Enrico Mattei?
Tutto cominciò così: luglio 1950. Il sasso in bocca al bandito Giuliano.
Da allora il sasso in bocca continua ad essere piantato in tante bocche.
Stessa tecnica, stessa mano. E la verità continua ad essere assassinata.

“Secolo d’Italia”, 26 luglio 1977
http://www.beppeniccolai.org/

Verbale di confronto On. Andreotti – Amm. Casardi 25.06.1981

Andreotti: confermò l’interrogatorio testé reso, con le precisazioni di tempo e di luogo ivi contenute.
Casardi: Ricevuta lettura di quanto ho dichiarato l’11 novembre scorso al dott. Sica chiarisco che l’inizio degli accertamenti su Foligni si riferisce ad un incarico ricevuto non già agli inizi del 1975 come trovasi verbalizzato ma bensì intorno all’ottobre del 1974. Ritengo essersi trattato di una vera svista pedissequamente riportata nel verbale.
La data dell’ottobre 1974 la ricordo bene perché all’epoca il mandato dell’on. Andreotti a Ministro della Difesa era nel periodo finale. In sostanza il Ministro Andreotti mi chiese di accertare chi fosse questo Foligni e che cosa stesse facendo, e come mai si agitasse tanto. Su questa richiesta impostai l’incarico poi affidato al generale Maletti.
Andreotti: Le rammento che la mia richiesta fece seguito ad un appunto che io avevo ricevuto da parte del suo servizio e in cui si faceva sommario cenno sia al Partito Popolare che ai contatti da lui trattenuti con personale di ambasciate ed esponenti militari.
Casardi: Non conservo memoria di questo appunto, anche se non mi sento di poter escludere con certezza che esso sia esistito. Io ricordo bene che incontrandomi in quella sede con il Ministro Andreotti ebbi tra l’altro ad accennargli che il Foligni intratteneva dei rapporti col personale dell’ambasciata libica per ottenere finanziamenti per il suo movimento tramite affari di importazione di petrolio; aggiunsi a titolo informativo che in tali iniziative il Foligni risultava godere dell’appoggio di Miceli e che era emerso il nome del generale Giudice come di persona cui stava a cuore la delicata posizione in cui all’epoca si trovava il gen. Miceli.
Andreotti: Escludo di aver sentito nominare nella sede anzidetta i nominativi del gen. Miceli e Giudice per bocca dell’Ammiraglio Casardi.
Casardi: l miei ricordi sono nel senso testé riferito. Tali informative furono poi completate qualche mese dopo, quando incaricai il gen. Maletti di informare il Ministro Andreotti sullo sviluppo delle indagini, l’informativa fu data all’on. Andreotti quando non era più Ministro della Difesa. A Domanda dei GG.II. chiarisco che si era  deciso di fornire queste ultime informazioni al Ministro Andreotti sebbene egli non reggesse più il Ministero della Difesa, in quanto si trattava dell’esito di un’indagine da lui a suo tempo iniziata.
Andreotti: confermo che nell’incontro dell’aprile del 1975 il Gen. Maletti mi informò soltanto sulla portata del movimento politico promosso dal Foligni senza neppure far cenno dei nominativi del Miceli e del Giudice. Ripeto che né allora né dopo ricevetti informazioni negative sul conto del Gen. Giudice, né alcun accenno alla sua partecipazione alle iniziative assunte dal Foligni.

Giannettini Guido – dichiarazioni 19.02.1990

Nel novembre ‘73 mi trovavo in Francia, a Parigi, in stato di irreperibilita’ in Italia. Cola’ mi ero recato nell’ aprile dello stesso anno per sfuggire alle ricerche del GI di Milano D’Ambrosio per i fatti di Piazza Fontana.
Ero collaboratore del Sid sin dal 1966, 1967 e fui contattato da un ufficiale del capo di Stato Maggiore della Difesa Aloja, generale Stefani, che mi presento’ all’ ufficio “D” all’ epoca retto da Viola che all’ epoca era temporaneamente sostituito da un altro ufficiale che poi mi presento’ al predetto, col. Fiorani.
Indi comincio’ la mia collaborazione esterna, fonte retribuita, e sempre in ambito ufficio D, cui fornivo anche notizie su situazioni di paesi esteri, poi devolute all’ ufficio “R”, ricerca all’estero.
Conobbi indi Gasca Queirazza, mi rapportavo direttamente a lui e pertanto, in tempi successivi, collaborai anche col gen. Maletti, che, verso la fine del 1972 o inizio del 1973, mi presento’ al suo sottoposto cap Labruna, alias dr Brandolesi.
Il passaggio del contatto fu deciso a seguito di alcune indiscrezioni comparse sui giornali a fine 1972 circa i miei contatti col gruppo veneto di Freda.

Adr: nulla so circa la caduta del velivolo militare Argo 16, avvenuta a Marghera il 23.11.73.

Adr: nell’agosto ‘74 mi consegnai all’ ambasciata italiana a Buenos Aires.

Adr: con Labruna, dipendente del Maletti, ho intrattenuto piu’ contatti fino all’aprile ‘74, anche in Parigi; transitai in Spagna nel giugno successivo, quivi arrestato dalla Seguridade e indi come ospite libero, e poi, a causa di una fuga di notizie avvenuta in Francia, il dirigente della brigata politico “social” consenti’ il mio espatrio verso l’ argentina, paese da me scelto. Qui non avvenne il contatto con i servizi in loco cosi’ come promessomi da Madrid perche’ seppi che il Sid aveva consigliato i madrileni di “non ostacolarmi e di non aiutarmi”.

Adr: a Labruna, per l’ inoltro al generale Maletti, consegnavo anche relazioni dattiloscritte. Effettivamente ebbi a consegnare, mi pare a Parigi, al Labruna una relazione sui fatti retrostanti il “Golpe Borghese”.

Mi viene mostrata la relazione dattiloscritta acquisita dalla sv di cui al verbale Labruna: la riconosco come da me stilata e dattiloscritta, confermo che la nota allegata era costituita da un appunto ad hoc, pure da me dattiloscritto, riguardante “l’ ammiraglio YW” e cioe’ il Torrisi, che, all’ epoca del Golpe, mi pare fosse capitano di vascello e comunque preciso che, in gergo, si adopera il termine ammiraglio anche per soggetti che rivestono un grado inferiore, da contrammiraglio in poi.

Adr: l’ ufficio indicato come “YYY” se ricordo bene era l’ ufficio Operazioni.

Adr: alla fase dibattimentale svoltasi presso la corte di assise di Catanzaro, nel 1977-1978, io addussi, a fronte di un accenno del Labruna o del Maletti circa una relazione da me stilata e a lui consegnata, concernente il Golpe Borghese, che non ricordavo la circostanza. Anzi addirittura la esclusi. A domanda sul motivo per il quale solo in ordine all’ “ammiraglio” apposi la dicitura “vedi nota” rispondo che solo di questo ufficiale ero a conoscenza del nome.

Adr: effettivamente, come la sv mi rappresenta, la “nota” stilata a parte era stata organizzata da me in funzione oggettiva di una eventuale censura del capo del reparto D, Maletti, vista la delicatezza dell’ incarico gia’ all’ epoca rivestito dal Torrisi.

Adr: circa i rapporti diretti tra il capo dell’ Ufficio Affari Riservati dr D’ Amato ed il Delle Chiaie, ebbe a parlarmene il giornalista, collaboratore de “Il Tempo” e di altri giornali, Beltrametti Edgardo, deceduto, cosi’ come anche altri colleghi. Ricordo che anche il cap. Labruna mi addusse che il D’ Amato era in rapporto con Delle Chiaie, “manovrato” dal predetto e dal suo ufficio, ritengo attraverso finanziamenti. Dagli anni ‘60 in poi era arcinoto, negli ambienti politici e giornalistici, che D’Amato manipolava Delle Chiaie e la struttura di AN, di cui il Delle Chiaie era il dirigente.

Adr: secondo i miei ricordi, del Torrisi e delle sue attivazioni circa il Golpe me ne parlo’ un amico del costruttore Orlandini, gia’ mercenario in Africa, residente all’ epoca in Manziana, gia’ militante del Msi, collaboratore di uffici di vertice, Generali Enzo che non vedo dal 1972 e di cui non ho avuto piu’ notizie. Col predetto eravamo amici e avevamo lavorato insieme, collegandoci alla destra francese, Oas, nonche’ alla Spagna di Franco: erano contatti che intrattenevamo insieme, volti alla creazione di un centro anticomunista a carattere europeo.

Adr: l’ appunto ad hoc sul Torrisi recava, in chiaro, il nome e cognome dell’ ufficiale e il ruolo da lui rivestito all’ epoca delle riunioni segrete. Non ricordo ulteriori particolari. Sostengo che al reparto D non vi era preesistente un codice circa le sigle da me impiegate nelle relazioni.

“Resistere fino all’ultima sigaretta” – L’Espresso 01.12.1974

Roma. Guido Giannettini: 44 anni, amico di Freda, Ventura e Pino Rauti, legami con la destra oltranzista internazionale, teorico della guerra civile e dei colpi di Stato. Dal ’64 al ’67 “informatore” dello Stato Maggiore dalla Difesa, dal ’67 in poi agente tuttofare del SID. Oggi in carcere per la strage di piazza Fontana.
Il curriculum di Giannettini è ormai abbastanza completo. Restava solo un punto da chiarire: le circostanze che hanno deciso quest’uomo a costituirsi il 14 agosto scorso. Si erano avanzati molti interrogativi al proposito. Erano stati i “cervelli” della strage di piazza Fontana a consegnarlo al giudice D’Ambrosio per influenzare le indagini sulle “trame nere”? Giannettini aveva scelto la prigione per paura di essere eliminato dagli “amici” di un tempo? Era la vittima di oscuri giochi di potere ai vertici del SID?
Ma adesso anche questa lacuna può essere riempita. Un informatore ci ha raccontato infatti come sono andate esattamente le cose. Ha potuto seguire l’ultimo capitolo della storia Giannettini passo per passo. Il suo è un contributo più che attendibile. Dunque: Giannettini si allontanava improvvisamente dall’Italia, agli inizi del 1973, quando ancora le indagini sulle bombe di piazza Fontana non lo hanno nemmeno sfiorato. Come mai? “Era stato avvisato di come si mettevano le cose da alcuni amici dei servizi segreti”.
“Dove si rifugia?”. “Fa la spola tra la Svizzera e la Francia. Ma si mette subito in contatto con il SID. Telefona varie volte al capitano Labruna: chiede soldi e un nuovo passaporto per potersi muovere all’occorrenza con più tranquillità. Labruna si consulta con il suo superiore, il generale Maletti e Maletti dà disposizioni precise: ‘Niente soldi, è da un po’ di tempo che Giannettini non ci manda più nulla di interessante. Quanto al passaporto non se ne parla nemmeno. Hanno appena perquisito la sua casa a Milano, si parla di veline compromettenti che riguardano i suoi rapporti con Freda e Ventura. Niente da fare'”.
“E Giannettini?”. “Per un po’ sparisce. Torna a farsi vivo nel giugno del ’73. Telefona a Labruna da Parigi: ‘Ho delle importanti rivelazioni da fare’. Maletti consente che Labruna vada a trovarlo a Parigi. L’appuntamento è ad Orly. Labruna si trova di fronte un Giannettini trasandato, sporco, irriconoscibile, l’aria di un uomo che sta andando ala deriva. Giannettini gli consegna una lunga lettera che contiene più o meno le stesse cose che di lì a poco racconterà ai giornalisti dell'”Espresso” e dell'”Europeo” nelle sue interviste. Niente di nuovo per il SID. La Bruna ne ha tanta pena che di sua iniziativa, dice, gli regala 150 delle 200 mila lire che il SID gli aveva assegnato come fondo spese per il viaggio. Giannettini per un po’ se ne sta buono, poi si rifà vivo al telefono. Siamo a settembre del 1973. Chiede di nuovo un passaporto”.
gianadelio-maletti2“E questa volta il SID glielo dà?”. “Maletti è sempre contrario, Miceli è incerto. Dove vorrebbe andare Giannettini?, s’informa Miceli. Sembra in Spagna. Allora, ordina Miceli, informatevi dai servizi spagnoli cosa farebbero nel caso si vedessero arrivare Giannettini. I servizi spagnoli rimangono abbastanza sconcertati di fronte alla domanda: siamo buoni amici, dicono, faremo quello che vorrete. E arriviamo così al gennaio del 1974”.
“All’epoca del mandato di cattura”. “Esatto. Non appena ne ha notizia, Giannettini telefona ancora a Labruna. Guardate che adesso io scappo da Parigi, ma ho preparato per voi un documento eccezionale. In cambio del documento Giannettini chiede qualche milione e il solito passaporto. Si arriva ad un accordo più ristretto: niente passaporto e 400.000 lire. Il 27 aprile di quest’anno Labruna incontra per l’ultima volta Giannettini a Parigi sempre ad Orly e si fa consegnare il dossier che si rivela tutto sommato un ultimo bluff. Subito dopo di Giannettini si perdono le tracce…”.
“Dove era andato?”. “Era riuscito a ‘filtrare’ in Spagna, come voleva. Intanto in Italia scoppia ufficialmente il ‘caso Giannettini’. Miceli il quale ha nascosto al giudice D’Ambrosio che si trattava del collaboratore del SID finisce sotto accusa. D’Ambrosio vuole assolutamente mettere le mani su Giannettini. Ma intanto in Spagna Giannettini è riuscito a far perdere le sue tracce. Il SID non sa più dove sia…”.
“Come viene ritrovato?”. “Per puro caso. Un ufficiale dei servizi segreti spagnoli sente raccontare che alla facoltà di sociologia di Madrid da qualche tempo assiste, come auditore, ai corsi di Vintila Horia, un italiano, un certo Giannettini che recita la parte dello 007 internazionale e spende continuamente nei suoi discorsi il nome del SID. Informati della cosa quelli dell’ufficio D chiedono ai servizi spagnoli di consegnare all’Interpol Giannettini. La risposta è imbarazzata: ci dispiace ma la questione non dipende più da noi… Era successo che nel frattempo il dossier Giannettini era arrivato nientemeno che sul tavolo del generalissimo Franco. C’era stato l’attentato a Carrero Blanco e gli spagnoli avevano saputo che gli attentatori si erano rifugiati in territorio francese. Giannettini era diventato così la pedina di un curioso baratto tra il governo spagnolo e l’Interpol: noi vi diamo Giannettini e voi ci date i baschi che hanno fatto fuori Carrero Blanco… Lo scambio, naturalmente, non va in porto e allora la polizia spagnola prende Giannettini che era stato isolato in un albergo alla periferia di Madrid e per fare un ultimo dispetto all’Interpol gli offre un biglietto aereo per una città di sua scelta. E Giannettini parte per Buenos Aires…”.
“E il SID come lo sa?”. “Il SID viene informato dai servizi spagnoli e incarica l’addetto militare dell’ambasciata italiana a Buenos Aires di contattare Giannettini. Il compito non è difficile. L’ufficiale ha un incontro con Giannettini che si è installato nell’albergo più lussuoso della città. Giannettini gli racconta per filo e per segno la storia delle sue ultime peripezie. L’ufficiale registra tutto. Passano 15 giorni e Giannettini torna a trovarlo, ha perduto tutta la sua sicurezza, anzi è decisamente spaventato. Gli amici sui quali contava a Buenos Aires lo hanno scaricato, non ha più una lira e un conto d’albergo di 1 milione 300 mila lire da pagare. Chiede un prestito. L’ufficiale chiama Maletti gli suggerisce di proporre a Giannettini una resa onorevole: l’ambasciata gli pagherà il conto dell’albergo se accetta di costituirsi. Giannettini non ha più nemmeno i soldi per pagarsi le sigarette. Resiste una settimana. Poi accetta”.

Giuseppe Catalano, L’Espresso 01.12.1974

L’attività di depistaggio – sentenza strage di Brescia luglio 2015 – seconda parte

Ma l’azione depistante del S.I.D. si manifesta in termini ancora più eclatanti proprio in sede giudiziaria.

Sentito dal G.L Vino il 29 agosto 1974, il gen. Maletti, infatti, lungi dal riferire le allarmanti notizie fornite da Tritone, nell’ imminenza della strage e subito dopo di essa, su Maggi, sul gruppo ordinovista veneto e sui suoi collegamenti, ha indicato agli inquirenti tutt’ altra pista, consigliando loro di indagare in Valtellina, sugli appartenenti al M.A.R.; pista sicuramente falsa, in quanto il M.A.R. era di fatto non operativo dopo l’arresto del suo capo, Carlo Fumagalli, il 9 maggio 1974.

E di questo il gen. Maletti, collettore di tutte le notizie riservate dei vari Centri di controspionaggio, era ben consapevole. Così come era ben consapevole che le notizie fornite da Tritone erano attendibili, avendo egli stesso accreditato la fonte presso il capo del S.LD., definendola “ottima”. Risulta, in tal modo, evidente che il S.I.D. non ha scelto la via del silenzio per (o solo per) tutelare la propria fonte, ma ha voluto coprire quelli che sapeva essere i reali colpevoli della strage.

Solo leggendo la trascrizione delle dichiarazioni rese dal gen. Maletti alla Corte d’Assise di Brescia – che si ritiene opportuno riportare integralmente nella parte de qua – può, d’altra parte, cogliersi l’impudenza dell’alto militare nel negare l’evidenza e confermare, ancora, a distanza di decenni, l’identico atteggiamento fuorviante e gravemente omissivo tenuto all’epoca dei fatti. Non senza sottolineare che i vuoti di memoria del teste non si giustificano a fronte di due osservazioni: l’una, che le domande rivoltegli non riguardavano fatti marginali, di cui il tempo avrebbe potuto cancellare la memoria, ma una delle stragi più emblematiche degli intrecci di potere sui quali il Servizio, ai cui vertici era collocato Maletti, aveva incentrato la propria attenzione; l’altra, che lo stesso teste mostra di avere memoria precisa di tanti minuziosi particolari di vicende ben meno eclatanti.

Questo il testo della trascrizione dell’ esame dibattimentale del gen. Maletti, svoltosi, in videoconferenza con la città di Pretoria, davanti la Corte bresciana:

“DOMANDA – Poi dopo ne riparleremo. Senta, noi ci occupiamo di Piazza della Loggia, della strage del 28 di maggio. Quindi lei in quel momento era il capo del reparto D da circa tre anni. È un evento che …

RISPOSTA – Sì, mi ricordo l’evento!

DOMANDA – Ci dica tutto quello che ricorda, se vennero prese delle iniziative, se ha ricevuto delle informazioni, poi dopo ritorneremo con alcuni appunti, però è bene che dica da solo prima con la sua memoria che cosa ricorda di quel periodo.

RISPOSTA – Per quanto riguarda l’attività informativa, a parte il fatto che ricordo molto poco dell’ evento della Loggia, a parte l’evento stesso, il reparto D non fece molto, perché non avevamo, sul momento, delle fonti utilizzabili. Inoltre una nostra attività avrebbe probabilmente intralciato l’attività delle forze dell’ordine, Polizia e Carabinieri, che stavano già indagando ed avevano una loro rete di informatori che a noi mancava in particolare a Brescia. Quindi ricordo molto poco di quell’evento – ripeto – per quanto riguarda la attività informativa. Se qualcosa fu scritto dai centri interessati, ripeto, si dovrebbe trovare agli atti.

DOMANDA – lo le chiedo se lei è al corrente che uno dei nostri imputati era una fonte del SID. Maurizio Tramante lei l’ha sentito nominare? La fonte Tritone.

RISPOSTA – No, non ne sono al corrente, faccio ancora presente che le fonti erano note al capo del reparto D solamente con il nome di copertura.

DOMANDA – Come Tritone?

RISPOSTA – Gli elenchi dei nominativi li aveva il reparto D ma erano gestiti, sia i nominativi sia i compensi, sia – ovviamente – l’utilizzazione, dai vari centri. E quindi io non connetto il nome di fonte Tritone con quello del signor Tramonte.

DOMANDA – Questo glielo dico perché vi è un appunto del 7 agosto del 1974, quindi posteriore rispetto alla strage di Piazza della Loggia, vi è un appunto … , non un appunto, un I annotazione, una nota a sua firma su carta intestata del reparto D, in cui lei scrive al capo del servizio, quindi presumibilmente Miceli, e riferisce “capo centro Padova, ha un’ottima fonte, quella che qui viene citata in allegato Tritone, che potrebbe essere bruciata da un intempestiva segnalazione agli organi di Polizia Giudiziaria”. Poi nell’appunto si fa riferimento ad un fatto …

RISPOSTA – Non ricordo questo mio appunto.

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – L’appunto è a sua firma e fa chiaro riferimento alla fonte Tritone.

RISPOSTA – Ricordo che io di solito siglavo gli appunti per il capo servizio, ma non mi ricordo questo particolare punto di segnalazione al capo servizio.

DOMANDA – Non si ricorda di questa segnalazione.

RISPOSTA – Neanche la fonte Tritone mi dice niente.

DOMANDA – Cioè in questo momento la fonte Tritone non le dice niente?

RISPOSTA – No, quello che mi ha detto lei, dottore, ma non mi richiama alcun ricordo.

DOMANDA – Senta ma capitava spesso che lei parlasse con il capo servizio di fonti, chiamandole, fornendo dei giudizi, formulando delle ipotesi, o è un fatto abbastanza raro?

RISPOSTA – Era una cosa rara. Ricordo alcuni episodi, ma ben pochi. Fonti …tra l’altro una delle fonti di estrema destra, ma non Tritone”.

Ed ancora, con riguardo alle dichiarazioni rese al G.I. Vino, nell’ agosto 1974:

“DOMANDA – Quindi, generale, lei disse al Giudice di Brescia il 29 agosto: “Per ora le fonti non ci hanno portato ad acquisire elementi di consistenza tale da potere essere forniti alla Autorità Giudiziaria, gli accertamenti sono. in corso”. Le chiedo se può darci una spiegazione, tenendo conto che siamo al 29 agosto del ’74, abbiamo visto in parallelo le informative di Tritone, questa importanza il SID avesse attribuito a quelle informative e con quale attenzione avesse ordinato al centro es. di Padova di comunicare ai Carabinieri quelle notizie, che sicuramente parlavano in qualche modo dell’attentato di Brescia. Qui però si afferma il 29 agosto, quindi in epoca successiva, che in realtà le fonti non avevano dato ancora nessuna indicazione. Se può spiegarci il senso di questa risposta, non è un addebito che le viene mosso, ma le chiedo una spiegazione, se è possibile darla.

RISPOSTA – Non ne ho idea, oggi proprio non ho idea del ragionamento che stava alla base della mia risposta al Giudice di Brescia. Potrebbe darsi che una delle ragioni fosse proprio quella di non rivelare il nome di una fonte, nel caso specifico Tritone, ma a parte questo non so dire quale ragione avessi di non dire niente di interessante al Giudice di Brescia. Per altro ho fatto presente che noi avevamo già informato, o intendevamo informare l’Autorità Giudiziaria tramite il centro di Padova, come è noto. Quindi non era una mancanza di lealtà nei confronti del Giudice, molto probabilmente era il desiderio di coprire la fonte, il cui nome avremmo probabilmente, necessariamente dovuto rivelare quando ancora erano in corso contatti da parte della forte con elementi eversivi.

DOMANDA – Ma è chiaro che la fonte doveva essere tutelata, ma le notizie che la fonte aveva fornito potevano essere svelate, pur tenendo coperta la fonte, così come pure si dice al centro es. di Padova di comunicare all’Arma territoriale i contenuti di quelle informative, ovviamente tenendo coperto il nome del fonte.

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – Perché c’è un contrasto tra: dite due nomi alla Autorità Giudiziaria, o dite i nomi alla Autorità Giudiziaria, e poi dire al Giudice che non ci sono fonti, non ci sono accertamenti utili al riguardo.

RISPOSTA – Ripeto io adesso non ricordo per quale ragione non abbia dato le informazioni che il Giudice di Brescia si attendeva da me. Ma faccio notare che la Giustizia era comunque stata allentata, attivata dal centro di Padova. Quindi il. ..

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – Sì ma lei non ne aveva ricevuto riscontro di tutto ciò. Nel momento in cui il Giudice … ?

RISPOSTA – … senz’altro aveva preso contatto con la Autorità Giudiziaria di Padova, oltre che informare i suoi superiori a Milano e Roma. Non era necessario che io avessi conferma perché quando io davo r ordine di effettuare un’operazione, l’ordine veniva eseguito, a meno che non fosse impossibile. Se avessi ricevuto la comunicazione … (parola incomprensibile) questo poteva anche tardare.

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – Nel momento in cui ci si trova di fronte a quella Autorità Giudiziaria, alla quale si sono inviati atti o si è data disposizione di inviare atti, come mai non dire alla stessa Autorità Giudiziaria: ma avete ricevuto quegli atti? Vi sono stati inviati quegli atti? Sapete che ci sono delle fonti? Sapete che ci sono degli accertamenti? C’è una contraddizione tra quanto detto al Giudice nell’agosto ed il precedente comportamento.

RISPOSTA – Giudice, non so perché io non lo abbia detto, ad ogni modo sono cose che non ricordo oggi, non so quali motivi mi abbiano indotto a dire a Padova ma non a Brescia. Non posso dire oggi se … quale fosse la logica.

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – Va bene, andiamo avanti.

DOMANDA – Lei ricorda se venne formulata da parte sua qualche ipotesi in ordine ai responsabili della strage di Brescia, dove dovessero essere collocati, in occasione di quella escussione da parte del Giudice di Brescia?

RISPOSTA – lo non ricordo neanche di essere stato interrogato dal Giudice di Brescia. Mi chiarite voi le idee? Non posso dire cosa abbia detto al Giudice.

DOMANDA – Le leggo quello che disse, generale
(N.d.r.: seguono le opposizioni dei vari difensori, respinte dal Presidente della Corte. Quindi, riprende l’esame del P.M.).

“DOMANDA – Generale, lei disse: “‘Per quanto riguarda la strage di Brescia, dal complesso degli elementi raccolti si potrebbe inquadrare l’attentato in un programma eversivo di matrice di estrema destra”.

RISPOSTA – Mi fa piacere che me l’abbia ricordato.

DOMANDA – Vado avanti a leggere, così poi ci dà una risposta complessiva: “Si potrebbe pensare ad un collegamento con gruppi aventi la base di azione in Valtellina, e quindi ad un collegamento con Fumagalli, che aveva a suo tempo manifestato intenzioni eversive violente e che aveva una sua base in Valtellina”.

RISPOSTA – Ripeto, non ricordo, ad ogni modo …

DOMANDA – “Potrebbe ravvisarsi in via ipotetica anche un collegamento dell’attentato con gli altri gruppi di estrema destra eventualmente legati da rapporti a gruppi stranieri. Si tratta però pur sempre di ipotesi”. La domanda è intanto se ricorda di avere detto queste cose, ma immagino di no, sono passati troppi anni. Da parte mia c’è il tentativo di capire perché venga formulata un’ipotesi in direzione di Fumagalli, a fronte di notizie che indicano i nomi di Romani, di Maggi, di Rauti … “

(N.d.r.: seguono opposizioni da parte della Difesa, respinte dal Presidente)

“INTERVENTO DEL PRESIDENTE – È tornato il collegamento. Le domande sono due: dato che aveva formulato un’ipotesi con riferimento al gruppo della Valtellina di Fumagalli, quali elementi aveva per potere indicare quella pista come ipotesi, ma pur sempre una pista investigativa?

RISPOSTA – Elementi informativi scritti non ne ricordo, ma elementi informativi verbali erano molto probabilmente alla base della mia segnalazione al Giudice di Brescia.

INTERVENTO DEL PRESIDENTE – La seconda domanda è: come mai, dato che invece c’erano informazioni scritte che provenivano dal centro di Padova, di diverso tenore rispetto a Fumagalli, come mai al Giudice non si prospettò questa ulteriore informazione?

RISPOSTA – Questo non glielo so dire, proprio non ricordo il corso della conversazione, e se tutto quanto sia stato riferito come io ho detto, oppure sia stato sintetizzato. Ad ogni modo io ho parlato del gruppo Fumagalli probabilmente, ripeto probabilmente, non citando Padova, nel convinzione, come vi ho già detto, che la Magistratura di Padova fosse naturalmente pronta a fornire notizie anche su cose di interesse di Brescia.

DOMANDA – Ricorda chi verbalmente aveva accostato il gruppo Fumagalli alla strage di Brescia?

RISPOSTA – No, non ricordo”.

Non meno significativa delle scelte depistanti del S.I.D., anche a livello territoriale, è la palese falsificazione della data in cui sono state raccolte le informazioni di Tritone riversate nell’ appunto allegato alla nota n. 4873, resa si necessaria per “coprire” il ritardo enorme nella loro comunicazione formale al Reparto D, non certo imputabile alla risibile spiegazione, fatta propria dalla Difesa di Maggi, dell’ assenza per ferie del magg. Bottallo. Falsificazione che lo stesso Felli, nelle sue ultime dichiarazioni, è stato costretto a riconoscere.
Nell’identica direzione va l’incredibile decisione di distruggere gli archivi dei Centri territoriali, ed in particolare quello di Padova, adottata, a dire di Bottallo, intorno al 1984-1985 dall’ammiraglio Martini, all’epoca capo del S.I.S.M.I..
Al riguardo non può non condividersi il rilievo dei difensori delle Parti civili circa l’interesse dei Servizi alla soppressione del materiale informativo contenuto negli archivi alla luce anche delle dichiarazioni rese da Vincenzo Vinciguerra in epoca concomitante o prossima all’ordine di distruzione. Questi, infatti, sentito dal G.l. di Brescia il 6 maggio 1985, aveva indicato i responsabili delle stragi, inclusa quella di Brescia, “nel gruppo di Ordine Nuovo collegato con ambienti di potere ed apparati dello Stato; area che vedeva nella strage lo strumento per creare la punta massima di disordine al fine di ristabilire <l’ordine>” .

Una conferma, in tal senso, si desume anche dall’immotivata decisione del S.l.D. di troncare il rapporto con la fonte “Turco” (alias Gianni Casalini) nonostante questa stesse riferendo notizie assai interessanti sui collegamenti fra il gruppo ordinovista di Venezia-Mestre e le stragi. Non va dimenticato che il ten. col. Del Gaudio – figurante fra gli iscritti alla Loggia P2 (fasc. n. 117 ), nonostante abbia negato di avere accettato l’invito in tal senso rivoltogli da Licio Gelli – è stato condannato a Venezia per falsa testimonianza proprio in relazione alla vicenda “Turco”. Dell’ atteggiamento “protettivo” del S.I. D. nei confronti dell’ estrema destra all’epoca dei fatti è, d’altra parte, traccia negli appunti di Felli. Successivamente alla strage, infatti, Tritone, nell’ appunto allegato alla nota n. 6748 del 4.10.1974, riferisce che Giangastone Romani, prendendo spunto dal “caso Giannettini” e dal recente rapporto del S.I.D. sulle “trame nere”, “ha confidato ad alcuni suoi seguaci che i servizi segreti italiani hanno agito disonestamente, ricattando e tradendo i propri collaboratori. Pur criticando aspramente le ‘spie’, Romani sostiene che esse erano state certamente indotte a collaborare col S.I.D. da certi atteggiamenti di <simpatia> da esso assunti in passato nei confronti dell’estrema destra”.

L’appunto prosegue con la rappresentazione dell’intento dell’ estrema destra di “far pagare” al S.I.D. il suo “voltafaccia” e dell’ elaborazione in corso di un piano ritorsivo, fondato sull’indicazione di piste false, in modo da screditare i Servizi e determinare la rimozione dei vertici del S.I.D. Non meno sintomatica della speciale protezione di cui il gruppo ordinovista facente capo a Maggi godeva anche da parte dei vertici territoriali dell’ Arma dei carabinieri, è l’inerzia tenuta dal Gruppo di Padova, diretto dal ten. Col. Manlio del Gaudio, a fronte di informazioni allarmanti ricevute in tempo reale dal Centro C.s. di Padova, grazie allo stretto rapporto personale intercorrente fra lo stesso Del Gaudio ed il magg. Bottallo, legame di cui danno prova le dichiarazioni del cap. Traverso (all’epoca, vice di Bottallo), del mar. Guerriero (in forza al Nucleo Informativo CC. di Padova) e del dattilografo del Centro C.S. di Padova, Todaro.

II tema è già stato in parte trattato con riferimento all’ appunto del 6 luglio. In questa sede si intende dare spazio alle puntuali osservazioni del P.M. e delle altre Parti appellanti circa l’anomalo comportamento dei vertici territoriali dell’Arma. E’ incontestabile che in tre R.I.S. – rispettivamente del 7 giugno, del 20 luglio e del 3 agosto 1974 – del Gruppo Carabinieri di Padova, sottoscritti dal comandante Del Gaudio ed indirizzati ai superiori gerarchici, siano riversate informazioni rese da Tritone a Felli.

Invero, nel R.I.S. del 7 giugno si fa riferimento:
a) alla costituzione in itinere di una nuova organizzazione, includente “ gli sbandati di Ordine Nuovo” ed avente due facce: “una palese, sotto forma di circoli culturali, l’altra, occulta, strutturata in gruppi ristrettissimi per dare vita ad azioni contro obiettivi scelti di volta in volta”;
b) alle iniziative programmate per Padova, indicate in azioni di volantinaggio, attacchi diffamatori e minacciosi contro il Procuratore Fais ed illustrazione degli scopi politici dell’ organizzazione stessa, ovvero “difendere, anche con la violenza, gli estremisti di destra ingiustamente perseguitati; attaccare le strutture del sistema borghese, del parlamentarismo e del marxismo”.

Elementi, quelli sub a), che si ritrovano nell’ appunto allegato alla nota n.4873 del 8 luglio e, quelli sub b), nell’ appunto allegato alla nota s.n. del 23 maggio. Del pari, nel R.I.S. del 20 luglio sono riportate, quanto alla struttura ed alle modalità operative della neo-formazione (“organico molto ristretto; elementi di media età e di provata fede politica; operare nel terreno dell’azione violenta contro obiettivi scelti di volta in volta”), nonché ai canali di rifornimento delle armi “tramite autotreni TIR provenienti dall’Olanda”, informazioni trasfuse negli appunti allegati alle note n. 4873 e n. 5120 del 16 luglio.

Il R.I.S. del 3 agosto, infine, ricalca le informazioni di Tritone, riportate nell’appunto allegato alla nota n. 5519 del 3 agosto 1974, quanto alla riunione dei vertici ordinovisti, incluso Rauti, prevista a breve a Roma; alla mobilitazione di aderenti alla destra rivoluzionaria in occasione del processo a carico di Franco Freda, a Catanzaro, ed allo spostamento del teatro d’azione dei gruppi rivoluzionari dalle grandi città ai piccoli centri per sfuggire all’ apparato repressivo, maggiormente organizzato nelle prime.

Vero è che – come sottolineano i giudici d’appello di Brescia – i rapporti di Del Gaudio sono tutti successivi alla strage e che, seppure la datazione della nota n. 4873 sia falsa, non si ha prova dell’ acquisizione delle informazioni relative alla riunione di Abano prima del 28 maggio. Ma non è questo il punto. Non si sta qui valutando il coinvolgimento di Del Gaudio, o di altri ufficiali dell’ Arma, nella strage, quanto la rilevanza di una condotta post factum tanto gravemente omissiva da apparire fuorviante, sulle cui ragioni occorre interrogarsi.

Il ten. col. Del Gaudio risulta al corrente delle informazioni di Tramonte sulla riunione di Abano quanto meno dal 7 giugno, nove giorni dopo l’attentato. E, in base alla testimonianza del cap. Traverso, può fondatamente ritenersi che egli abbia preso visione, sia pure non in un unico contesto ove si tenga conto della datazione dei fatti di cui ai punti 7-13, dell’intero contenuto degli appunti da cui aveva tratto le informazioni contenute nei tre R.I.S. menzionati. Il teste Traverso ha, infatti, riferito in dibattimento che, per prassi, al comandante dell’ Arma territoriale era consentito leggere le informative complesse – quali oggettivamente erano, quanto meno, quelle allegate alla nota n. 4873 ed a quella s.n. del 23 maggio – e prendere appunti. Orbene, in quelle informative erano contenute notizie che avrebbero allarmato chiunque, tanto più alla luce del tragico evento verificatosi tre giorni dopo la riunione di Abano e ad una settimana dall’incontro della fonte con lo studente di Ferrara. Ma, quel che più conta, nell’ appunto allegato alla nota n. 4873 – nel quale si faceva esplicita menzione della struttura, delle modalità operative, del programma, della dirigenza, della denominazione, delle vie di approvvigionamento di armi, della sostanziale rivendicazione della strage di Brescia – erano menzionati i nominativi di Maggi, di Romani, di Rauti, di Melioli, Francesconi Sartori, soggetti dal profilo politico ben definito, sui quali era doveroso attivare immediatamente le indagini. Ciò nondimeno, nessun significativo accertamento risulta avviato nella direzione indicata a chiare lettere dalla fonte del S.I.D..
E’, d’altra parte, corretto il rilievo del P.M. secondo cui, se il S.I.D. poteva avere delle remore a “bruciare” la sua fonte, i CC non avevano alcuna ragione di omettere o ritardare accertamenti doverosi, che avrebbero potuto avviare anche di iniziativa, con servizi di appostamento, pedinamenti, perquisizioni o intercettazioni tanto più che, all’epoca, l’attivazione di queste ultime era consentita anche sulla base di notizie provenienti da fonte confidenziale.

Al contrario tutti gli sforzi investigativi si sono concentrati sulle figure di Buzzi e di Angelino Papa – apparentemente reo confesso, ma in realtà vittima di violenze (restrizione carceraria in condizioni degradate ed antiigieniche, soprusi, interrogatori lunghissimi protratti fino a notte inoltrata e lusinghe, promessa di ingenti somme poste a sua disposizione dopo una confessione, tutti strumenti di una pressione psicologica, alla cui violenza non aveva retto la fragile personalità dell’imputato, vero e proprio capro espiatorio – con i risultati che sono noti. Ciò, anche grazie all’impegno del cap. Delfino, la cui definitiva assoluzione non elimina del tutto le ombre che la stessa Corte d’Assise d’Appello di Bresciana colto nel suo comportamento, caratterizzato da “plurimi atti abusivi” e da rapporti non troppo limpidi con “frange estremiste di destra“, da una frenetica e spregiudicata attività investigativa, troppo marcatamente orientata, che ha poi finito per inquinare le risultanze probatorie e che, seppure riferibile all’ iniziativa del giudice Arcai, ha trovato in Delfino un assai solerte conduttore.

Ed il fatto che la Cassazione abbia sancito la correttezza del ragionamento probatorio che ha portato la Corte bresciana ad assolvere Delfino, nulla toglie alla rilevanza delle connotazioni negative che l’attività investigativa dell’ex imputato assume nella ricostruzione dell’ opera di sviamento delle indagini posta in essere da alcuni settori dell’Arma.

Peraltro, la stessa Cassazione non ha ritenuto inverosimile l’ipotesi che Delfino abbia depistato le indagini, orientandole verso Buzzi. La Corte – investita, si sottolinea, del giudizio relativo alla responsabilità di Delfino quale imputato della strage – si è, invero, limitata ad affermare che la circostanza avrebbe comunque “scarso peso probatorio; anche in considerazione del fatto che l’eventuale depistaggio operato dall’ufficiale, in mancanza di ulteriori atti di compartecipazione nel fatto. criminoso, configurerebbe un semplice favoreggiamento che ad oggi sarebbe ampiamente prescritto”.

In conclusione, ritiene la Corte che l’attività di depistaggio attuata dal S.I.D., il silenzio mantenuto da Del Gaudio sulla riunione di Abano e sull’identità dei partecipi, in uno con !’inerzia conseguitane, a fronte di informazioni reputate attendibili che orientavano chiaramente verso la pista veneta ed in particolare verso il gruppo facente capo a Maggi, non siano altrimenti spiegabili se non con la scelta di dare copertura ai responsabili della strage.
Ne deriva che anche tale circostanza assume valenza di indizio grave e preciso, che va nella medesima direzione delle altre risultanze probatorie che supportano l’assunto accusatorio.