Se la tiene sul cuore, ben custodita nella tasca interna della giacca di gabardine marrone scuro che indossa da tre settimane, da quando martedì 28 maggio la bomba fascista ha ucciso sette persone in piazza della Loggia a Brescia. È la mappa dei personaggi del terrorismo nero. La più completa mai fatta sino a oggi in Italia. Se l’è costruita pezzo per pezzo con un paziente lavoro di mesi. Francesco Delfino, 36 anni, calabrese di Platì, capitano dei carabinieri e comandante del nucleo investigativo di Brescia, è l’uomo sul quale governo e magistratura puntano per dare al Paese nomi e cognomi degli assassini fascisti, dei loro mandanti e dei loro finanziatori.

Dal 9 marzo 1974, giorno dell’arresto di Kim Borromeo e Giorgio Spedini, i due terroristi sorpresi in val Camonica con 57 chili di tritolo, Delfino non ha avuto più un minuto di tregua. Mangia una volta al giorno (l’unico pasto un po’ tranquillo l’ha fatto martedì 4 giugno con alcuni amici al ristorante La Sosta di Brescia), dorme quattro ore per notte quando gli va bene, passa le giornate tra perquisizioni, interrogatori, arresti e tentativi, quasi sempre vani, di sfuggire al perenne assedio dei 22 giornalisti che a Brescia seguono lo sviluppo delle indagini sulle trame nere.
« La strada maestra per riuscire a mettere le mani sui massacratori di piazza della Loggia », dicono al tribunale di Brescia, « è quella di ricostruire la storia della trama eversiva che, ormai ne siamo certi, aveva cominciato tre mesi fa a operare sul piano pratico ». « Era una congiura », precisa il giudice istruttore Giovanni Arcai, « che siamo riusciti a fermare proprio nel momento più pericoloso, quello di un tentativo di colpo di Stato ». « La scintilla che avrebbe potuto farlo scattare », aggiunge il sostituto procuratore della Repubblica Enzo Giannini, « doveva essere la bomba che la notte del 19 maggio 1974 ha ucciso il terrorista che la stava portando a destinazione ».
Il dinamitardo nero era Silvio Ferrari, 22 anni, studente, estremista di destra, figlio del rappresentante della Lancia di Brescia. Ferrari doveva mettere l’ordigno in piazza della Loggia dove, il mattino dopo, domenica 20 maggio, era stato fissato il raduno degli ex-appartenenti ai Lupi di Toscana, una divisione di fanteria, decorata di medaglia d’oro al valor militare (la motivazione dice: « Acquistando fama leggendaria sì che il nemico sbigottito chiamò lupi gli implacabili fanti »). La bomba, firmata da una organizzazione di sinistra, avrebbe dovuto fare una strage fra i reduci e i drappelli militari presenti alla sfilata, provocando così una dura reazione di destra. Secondo notizie raccolte dai servizi segreti, l’azione di Ferrari era legata a un piano di mobilitazione generale di tutte le associazioni combattentistiche italiane. Il programma prevedeva: manifestazioni di piazza sapientemente orchestrate dai fascisti: assalti alle sedi dei sindacati, dei partiti di sinistra e delle organizzazioni extraparlamentari; attentati contro caserme, uffici diplomatici stranieri, sedi dell’Anpi (l’associazione partigiani italiani), abitazioni di esponenti di sinistra; rivolte nelle carceri delle principali città italiane; blocchi alle linee ferroviarie e sulle autostrade. Alla tensione immediata avrebbe dovuto fare seguito, il 2 giugno festa della repubblica, un colossale attentato in via dei Fori Imperiali, durante la tradizionale parata dell’esercito. Obiettivo: scatenare l’ini- i zio di una guerra civile, obbligare le forze armate a intervenire per ristabilire l’ordine, annullare la Costituzione repubblicana, imporre una repubblica presidenziale di stampo reazionario controllata dai generali. Silvio Ferrari era una semplice pedina della manovra eversiva. Stando alle prime indagini, uno degli organizzatori del piano sarebbe stato Carlo Fumagalli, 49 anni, valtellinese, arrestato dal capitano Delfino assieme a una ventina di altri fascisti una settimana prima della morte di Ferrari. Dal 1970 Fumagalli e gli uomini della sua organizzazione, il Mar (Movimento di azione rivoluzionaria), si erano sempre battuti per « una repubblica presidenziale capace di far rispettare la legge, l’ordine, la disciplina ».
Ex-partigiano in Valtellina, ex-comandante dei Gufi (un’organizzazione della Resistenza, autonoma dal Comando generale del corpo di liberazione), ex-agente dei servizi segreti americani in Italia, ex-collaboratore, negli anni 60, dei servizi di spionaggio dell’Arabia Saudita, Fumagalli aveva una grossa esperienza di guerriglia. In più poteva vantare amicizie e stretti legami con settori del Sid (controspionaggio italiano), dell’ esercito, e della destra « benpensante » che si identificava con la cosiddetta Maggioranza Silenziosa, guidata a Milano dall’avvocato Adamo Degli Occhi (convocato due volte e interrogato per 14 ore dai carabinieri dopo la strage di piazza della Loggia, provocata dall’esplosione di una carica di tritolo).
« Fumagalli è il capo di tutto », afferma Francesco Trovato, sostituto procuratore della Repubblica a Brescia. A dare alla magistratura questa sicurezza sono soprattutto tre elementi. Primo: nell’ufficio di Fumagalli in via Egidio Folli, a ridosso della stazione ferroviaria di Lambrate, è stata trovata una matrice per ciclostile con impresso un minaccioso proclama rivoluzionario, da inviare ai giornali subito dopo gli attentati che avrebbero dovuto precedere il colpo di Stato (« Dichiariamo ufficialmente guerra allo Stato e al bolscevismo. Le ostilità continueranno con attentati alle principali linee ferroviarie »).
Il secondo elemento in mano alla magistratura, è la Land Rover trovata, sempre a Milano, nel garage del capo del Mar in via Felice Poggi. La fuoristrada era intestata alla stessa persona (Antonio Sirtori, milanese, iscritto al Msi-Destra nazionale) e rifornita degli stessi equipaggiamenti (sacchi a pelo, divise da guerriglieri, viveri a secco), di quella servita a Giancarlo Esposti, Alessandro D’Intino, Salvatore Vivirito, Alessandro Danieletti, per raggiungere il campo Dux di Rascino, in provincia di Rieti il giorno della strage di piazza della Loggia. I quattro avevano il compito di fare l’attentato a Roma il 2 giugno. Sorpresi dai carabinieri giovedì 30 maggio, sono stati catturati ed Esposti è rimasto ucciso con in mano una pistola Mauser con la quale aveva sparato su un appuntato e un brigadiere, ferendoli gravemente.

Il terzo elemento, infine, che prova la parte di capo avuta da Fumagalli nella congiura, sono le confessioni di Kim Borromeo e Giorgio Spedini, i due fascisti arrestati per primi da Delfino. Muti sino al giorno della strage di Brescia, Borromeo e Spedini hanno confermato il loro diretto legame con Fumagalli, hanno detto che il tritolo in loro possesso lo stavano trasportando per conto del Mar, rivelato i rifugi segreti dei terroristi fascisti nelle grotte della Valtellina, fornito notizie sui campi di addestramento, elencato nomi, indirizzi, struttura operativa dell’organizzazione, suggerito indicazioni sulla mancata missione dinamitarda di Ferrari e sugli ambienti bresciani, veronesi e milanesi in cui cercare gli esecutori materiali della strage di piazza della Loggia.
Assieme alle coincidenze, ai documenti e alle confessioni che i carabinieri hanno accumulato in questi giorni, esistono nei confronti di Fumagalli anche precisi rapporti del ministero dell’Interno e del Sid. Spiegano come il capo del Mar fosse uno dei principali coordinatori di una specie di gran consiglio del neofascismo attorno al quale ruotavano le Sam, squadre di azione Mussolini: 40 attentati a Milano dal 1969 al 1974; Ordine Nero: 10 bombe contro edifici pubblici e ferrovie fra il febbraio e l’aprile 1974; Anno Zero, un gruppo di giovani romani, veronesi, torinesi e triestini specializzati nella propaganda terroristica; Ordine Nero, composto da ex aderenti del disciolto Ordine Nuovo, il movimento fondato dal deputato missino Pino Rauti; Avanguardia Nazionale, un’associazione di picchiatori professionisti addestrati in campeggi paramilitari; le correnti del Msi-Destra Nazionale che si richiamano a Rauti e Pino Romualdi (Gianni Colombo, dirigente missino di Monza, era il sorvegliante del covo per latitanti fascisti appartenenti alla banda Fumagalli in via Airolo a Milano); il gruppo bresciano di Riscossa, una delirante rivistina neonazista; il nucleo della Fenice, l’organizzazione diretta da Giancarlo Rognoni, il missino milanese accusato di strage per l’attentato del 7 marzo 1973 al direttissimo Torino- Genova.
Nel gennaio 1974, tutti questi movimenti, dopo una serie di riunioni preparatorie tenute a Roma, Torino, Verona e Cattolica, decisero di passare all’azione e di costituire un comitato nazionale ristretto a poche persone, cui toccava il compito di organizzare, città per città, le « centurie » terroristiche : quella di Brescia, la più scatenata, era diretta da Enzo Tartaglia, 49 anni collaboratore di Riscossa, un fanatico che, secondo Kim Borromeo, portava la pistola infilata anche nel pigiama. Nel gran consiglio c’era una sedia vuota. Era riservata al nazifascista padovano Franco Freda, il procuratore legale accusato per la strage di piazza Fontana, massimo teorico della strategia della tensione, considerato da tutti « un maestro e un profeta ».
Con il Comitato di solidarietà per Franco Freda (i camerati lo chiamano Giorgio), i vari gruppi del comitato nero avevano stretti contatti. Riscossa, Anno Zero, La Fenice, negli anni scorsi hanno fatto una grande campagna di propaganda per il legale padovano (« ingiustamente accusato dal potere borghese e giudaico »). Nel gennaio 1973 Riscossa aveva pubblicato una intervista di Beppino Benedetti, un ragioniere di 41 anni (arrestato con Fumagalli), a Marco Pozzan, uno dei luogotenenti di Freda, latitante, accusato di aver collaborato alla realizzazione degli attentati del 1969. Ai tre giornali di estrema destra e ai legali che gli ruotavano attorno, faceva capo l’organizzazione del Soccorso Nero, una specie di San Vincenzo per terroristi, con una sede in Svizzera, a Bellinzona, e un punto di ritrovo a Barcellona, in Spagna.
Compito del Soccorso Nero, coordinato all’estero da un collaboratore di Riscossa e da un giornalista di destra legato al Sid, era quello di aiutare i « camerati » fuggiaschi (in Svizzera ce ne sono di importantissimi: Clemente Graziani, leader di Ordine Nero, Elio Massagrande, uno dei responsabili di Anno Zero, Giancarlo Rognoni e il suo luogotenente Piero Battiston, denunciato per detenzione di esplosivo, Gianni Nardi, ricercato per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi). All’estero sarebbe dovuto andare anche Freda.
Il Mar nei suoi programmi prevedeva anche la liberazione di Freda attraverso lo scambio con un gruppo di quattro magistrati milanesi : Gerardo d’Ambrosio, autore dell’indagine su piazza Fontana, Ciro De Vincenzo, Libero Riccardelli (l’accusatore di Nardi) e Vincenzo De Liguori. Nelle cantine di via Folli, gli uomini di Fumagalli avevano già preparato i pannelli isolanti adatti a costruire le celle per i sequestrati.
Stando all’indagine dei magistrati bresciani, oltre ai sequestri di tipo politico, i congiurati avevano ideato rapimenti a scopo di estorsione (anzi, ne avrebbero fatto uno nel mese di aprile ricavandone 400 milioni). Ma i giudici di Brescia sono poco convinti di questa traccia. I finanziamenti, cospicui, arrivavano ai fascisti per vie molto meno rischiose : conti cifrati in una banca di Lugano, sui quali mandanti e finanziatori depositavano, coperti dall’anonimato, le sovvenzioni per le stragi. Solo pochi uomini del comitato nero conoscono i nomi dei grandi pagatori del neofascismo italiano. Questi nomi sono la grossa lacuna nella mappa sulle trame nere del capitano Delfino.
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