Sulla figura di Pietro Rampulla – dichiarazioni Antonino Calderone

PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione la scelta di cui ha appena accennato di fare attentati dopo le assoluzioni di Catanzaro? Mi pare che i capi di Cosa nostra uscirono assolti, dopodiché si disse: “Ci dobbiamo ripresentare”.

ANTONINO CALDERONE. Sì, dobbiamo far sentire che siamo presenti, tanto è vero che poi si dovevano mettere le bombe. E’ venuto a Catania Francesco Madonia, quello di Palermo, portando una bomba ad orologeria, ma era un ordigno fatto artigianalmente. Si doveva mettere quando lo dicevano loro.
Avevano deciso di metterlo alla fine dell’anno, poi non erano d’accordo, fatto sta che noialtri non l’abbiamo messo. Luciano Liggio disse a mio cugino: “Senti, hai ancora quella bomba?”. “Sì”. “Perché non la metti dietro alla porta del palazzo di giustizia?”. Quello l’ha messa ed è scoppiata.

PRESIDENTE. Quando fu messa la bomba nella macchina di suo fratello non fu fatta intervenire la polizia perché un
uomo d’onore non deve farlo, ma venne chiamato Pietro Rampulla. Può spiegare chi era?

ANTONINO CALDERONE. Pietro Rampulla è il figlio di un grande uomo d’onore di Mistretta. Era quello che spingeva
molto per ammazzare il presidente della regione D’Angelo. Da ragazzo, frequentando la scuola, diventò fascista. Dice lui – ed io ci credo – che lo hanno istruito nel maneggiare il tritolo, le bombe. Nitto Santapaola ha portato questo signore per disinnescare la bomba, perché noialtri non ne capivamo niente. Lui ha staccato i fili e ci ha spiegato che era una bomba con comando a distanza. Era una piccola scatola da scarpe, l’abbiamo aperta e c’era una lampada: come faceva contatto si accendeva. C’erano una batteria e tanti fili. Ora, se non ho messo io la bomba non
la stacco così presto.

PRESIDENTE. Venne il sospetto che l’avesse fatta Rampulla?

ANTONINO CALDERONE. E’ logico.

PRESIDENTE. Come è possibile che un terrorista di destra fosse anche uomo d’onore?

ANTONINO CALDERONE. Non era più di destra. Era stato terrorista, aveva dato qualche coltellata, aveva un processo,
mi pare, ma poi era uscito.

PRESIDENTE. Quando Cosa nostra, dopo le assoluzioni di Catanzaro, decise di attuare la strategia della violenza per
rifarsi viva, era sola ad aver deciso o c’era qualcun altro che poteva aver interesse?

ANTONINO CALDERONE. Non so. Io sapevo che era Cosa nostra ad aver deciso così.

PRESIDENTE. Può dare alla Commissione i chiarimenti a sua conoscenza sulla questione del golpe Borghese?

ANTONINO CALDERONE. Sì. Qualcuno a Palermo ha fatto sapere che Valerio Borghese voleva fare un golpe e voleva gli uomini della mafia (non sapeva che si chiamava Cosa nostra).
Si sono riuniti ed hanno deciso. I fascisti non li hanno mai potuti vedere per il fatto di Mussolini, perciò si disse che
se riuscivano nel golpe per noialtri erano guai, allora tanto valeva prenderli in giro dicendo di sì, che accettavamo: se
vincono, abbiamo guadagnato, se non vincono non abbiamo perso niente. Si disse che uno poteva andare a conoscere come stavano le cose e mio fratello si recò a Roma ad un appuntamento. Fu preso da una persona che lo portò da Valerio Borghese, che gli chiese molti uomini e spiegò la strategia del golpe.

PRESIDENTE. Cosa gli disse?

ANTONINO CALDERONE. Che Roma era il centro e tutta l’Italia era periferia. Si doveva occupare prima di tutto il
Ministero dell’interno e la RAI. Dal Ministero dell’interno un loro uomo avrebbe diramato a tutti i prefetti l’ordine di
levarsi perché sarebbero stati sostituiti da altri uomini.
Dovevamo accompagnarli noialtri mafiosi o i fascisti per farli insediare: se i prefetti non si volevano levare dovevamo
intervenire noialtri. Borghese disse che dovevamo arrestarli e mio fratello rispose che non avevamo mai arrestato persone e che, se voleva, li potevamo ammazzare. Gli dissero che ci avrebbero dato delle armi, se mandavamo degli uomini a Roma, e che ci avrebbero fatto sapere la data. Hanno fissato la data ed è partito dalla Sicilia Natale Rimi con altri due. Gli hanno dato dei mitra, in quella famosa notte, dicendo: “Se sentite a Roma sparare qualche colpo…”. Noi aspettavamo all’aeroporto il ritorno di questo.

PRESIDENTE. Tutto il vostro contributo era rappresentato da tre persone?

ANTONINO CALDERONE. Sì.

PRESIDENTE. Se poi la cosa fosse andata bene vi sareste mossi?

ANTONINO CALDERONE. Sì. Comunque, agivamo così per farceli amici e perché ci promisero che avrebbero revisionato i processi di Liggio, Rimi e qualche altro. Naturalmente, non ci garantivano che poi avremmo potuto effettuare omicidi a nostro piacimento, poiché vi sarebbe stata comunque una legge. Intanto, però, si potevano revisionare i processi.

PRESIDENTE. Subire processi e condanne rappresenta un fatto grave per Cosa nostra?

ANTONINO CALDERONE. E’ gravissimo, non grave.

PRESIDENTE. Quindi, uno dei maggiori interessi di Cosa nostra è quello di ridurre la reclusione ed annullare i processi?

ANTONINO CALDERONE. E’ logico, perché in tal modo si comanda meglio e si acquista un certo carisma. Infatti, chi
riesce a far annullare un processo acquista, agli occhi degli uomini d’onore, un grande prestigio.

Dichiarazioni di Antonino Calderone in commissione parlamentare antimafia dell’11.11.1992

Lettera di Edgardo Sogno a L’Espresso e risposta 24.03.1974

In merito a quanto pubblicato sul numero 8 dell'”Espresso” del 24 febbraio nell’articolo “Streppa e moschetto”, a firma di Gabriele Invernizzi, vorrei precisare che non ho mai avuto alcun rapporto diretto o indiretto con le persone citate dell’articolo come organizzatori o sostenitori della cosiddetta e non meglio precisata maggioranza silenziosa e cioè con l’avvocato Adamo Degli Occhi, il signor Luciano Buonocore e gli industriali Attilio Monti e Furio Cicogna. A maggior ragione non sono mai stato invitato né è mai stata mia intenzione partecipare alle manifestazioni delle maggioranze silenziose, di solidarietà con le forze armate o alle giornate anticomuniste citate nell’articolo.
Edgardo Sogno

La memoria stavolta ha giocato davvero un brutto scherzo all’ambasciatore Sogno se non ricorda quel lunedì sera dell’ottobre scorso in cui egli invitò tutto lo stato maggiore della maggioranza silenziosa (e cioè Adamo Degli Occhi, Luciano Buonocore e Margherita di Solagna) a celebrare presso la sala del Grenchetto di Milano la presenza dei liberali nella Resistenza. Allo stesso modo Sogno ha dimenticato che il giorno precedente Luciano Buonocore e Margherita di Solagna, furono ospiti della sua villa Arborio Mella a Limbiate, dove assieme discussero la possibilità di organizzare giornate anticomuniste. Circa infine i suoi rapporti con i rappresentanti della destra industriale italiana come Monti e Cicogna, basta scorrere l’elenco dei partecipanti ai convegni di studio per la “Rifondazione dello Stato” organizzati da Sogno.
Gabriele Invernizzi

“I soldi: da dove venivano, chi li procurava” – L’Espresso 10.11.1974

Chi finanziava i piani eversivi di Junio valerio Borghese? Ecco uno degli argomenti sui quali attualmente stanno indagando, a Roma, il sostituto procuratore Claudio Vitalone e il giudice istruttore Filippo Fiore. Si parla anche di prossimi avvisi di reato per noti industriali e finanzieri genovesi. Cerchiamo di vedere quali sono le fonti cui si ispirano i magistrati.
Come prima cosa, i giudici romani hanno riesumato un breve rapporto del SID (tre cartelle dattiloscritte), che risale al 1969. Esso contiene il resoconto di tre riunioni, tenutesi fra aprile e maggio dello stesso anno, nella villa dell’industriale Guido Canale, in via Capo Santa Chiara, a Genova. Alle riunioni, oltre al padrone di casa, parteciparono fra gli altri: gli armatori genovesi Alberto e Sebastiano Cameli, l’avvocato Gianni Meneghini (che ha difeso Nico Azzi), il direttore dell’Imi di Genova Luigi Fedelini, il dirigente della IBM, Niccolò Cattaneo della Volta; e poi Gian Luigi Lagorio Serra, il costruttore Giacomo Berrino, presidente del Genoa, l’agente marittimo Giacomo Cambiaso e Giancarlo de Marchi, tesoriere della Rosa dei Venti. In tutto una ventina di persone.
Borghese – che presiedette la prima di queste riunioni – dichiarò ai convenuti che era già in piedi “un’organizzazione militare di professionisti, pronta ad agire per impedire con la forza l’avvento al potere dei comunisti e per instaurare un regime di tipo gollista”. Durante la terza riunione, l’ingegner Fedelini, che aveva assunto la carica di delegato provinciale del Fronte Nazionale, precisò che il Fronte era articolato in due settori specializzati: “quello militare, con il compito di occupare e presidiare le città principali, e quello civile, con la funzione di orientare l’opinione pubblica”. Sembra accertato, ma da fonte diversa del SID, che a seguito delle tre riunioni, industriali e notabili liguri sottoscrissero circa 100 milioni. Il fatto che Borghese si rivolgesse direttamente ad esponenti del mondo industriale e finanziario può trovare una sola spiegazione: che cioè i suoi precedenti canali di finanziamento – che lo avevano sostenuto fino al 1969 – ormai non funzionavano più.
Per quale ragione il principe si trova improvvisamente senza fondi per attuare i suoi disegni eversivi? E, ancora, chi lo aveva finanziato fino a quel momento? La risposta a questi interrogativi va cercata neo fascicoli di due altri processi. Il primo (che si è già concluso nel luglio del ’73 con la condanna di tutti gli imputati davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Roma) è quello per il crack avvenuto nel ’68 della Banca del Credito Commerciale e Industriale (Credilcomin) presieduta da Borghese.
Il secondo (iniziato solo il 14 ottobre scorso a Milano) è invece contro otto amministratori della SFI, la Societaria finanziaria italiana, per un fallimento di molti miliardi avvenuto una decina di anni fa. E proprio attraverso le vicende della SFI è possibile ricostruire l’intera storia. Questa società finanziaria si era sviluppata nel ’60 con l’ingresso di alcuni personaggi legati al Vaticano, come Carlo Baldini, o alla DC (Antonio Marazza, Alfonso Spataro, Antonio Cova). Per arricchire il suo portafogli, la SFI acquista da Sindona la Credicomin, cioè la futura società di Valerio Borghese. Servirà per alcune operazioni particolari come il finanziamento dell’agenzia giornalistica Italia.
Due anni dopo, però, alcune speculazioni sbagliate mettono in gravi difficoltà la SFI. Con la mediazione del Vaticano, Baldini riesce a trovare i capitali necessari per avere un po’ di fiato. A portarglieli sono Gil Robles e don Julio Munoz, entrambi legati all’Opus Dei spagnola, ai quali sono stati affidati 10 miliardi di lire da Rafael Trujillo junior, figlio dell’ex dittatore di Santo Domingo. Fuggito dal suo paese, Trujillo ha scelto come suo avvocato a New York Richard Nixon, non ancora presidente degli Stati Uniti ma già buon amico di Michele Sindona.
Nata all’insegna di personaggi così potenti, la trattativa tra la SFI e gli spagnoli non poteva che concludersi rapidamente e bene: cioè la SFI ottiene i 10 miliardi. Il trust porta alla costituzione di due società alla cui presidenza viene chiamato Valerio Borghese. Subito dopo una delle due società, la Ventana, acquista la Credicomin per 3 miliardi e 375 milioni e il principe ne diventa il presidente.
L’operazione di finanziamento è ormai messa a punto alla perfezione: attraverso la SFI e le società collegate, i miliardi di Trujillo passano alla banca di Borghese e svaniscono nel nulla. Sono gli anni in cui si prepara la strategia della tensione (del ’65 è il convegno all’Hotel Parco dei Principi) e i soldi servono ai golpisti: se 2 miliardi vanno all’agenzia Italia, il resto finisce a Borghese e a società fantasma. E quando nel ’65 la SFI crolla e la banca di Borghese è sottoposta ad amministrazione straordinaria, interviene la Privata Finanziaria di Sindona che risarcisce i piccoli creditori e ottiene in cambio dalla Banca d’Italia “anticipazioni e autorizzazioni ad aprire nuovi sportelli”. Già alla fine degli anni ’60 il nome di Sindona viene associato a quello dei golpisti. I magistrati stabiliranno se è soltanto un caso.

“1974” – Alberto Cecchi

Era convinzione diffusa che il Quirinale, in un modo o nell’altro, sarebbe andato a Fanfani e che da lì sarebbe cominciato un riordinamento catartico della repubblica e della società sottostante, con la liberazione dall’angoscioso problema della presenza comunista. E’ in questo involucro, in questo clima, in questa esaltazione degli animi che il referendum sul divorzio, rinviato con le elezioni politiche del ’72, arrivò al nuovo appuntamento, nel maggio del ’74. Fanfani saldamente installato alla guida della Dc, era euforico, sicuro di sé. Aveva avuto tutto il tempo a disposizione per preparare le carte. La Dc, è vero, si trovava isolata nella campagna antidivorzista, ma alle spalle aveva l’esperienza del 1972: i “laici” restavano nel governo, il governo si dichiarava neutrale; l’elettorato comunista si sarebbe spaccato, dividendosi tra divorzisti e antidivorzisti. Una volta divisi i comunisti – non era mai accaduto dal 1945-46 – il blocco Dc-“laici” sarebbe diventato fortissimo, sull’anticomunismo si sarebbe rinsaldato… Forse si sarebbero fatte di nuovo le elezioni, con un altro scioglimento traumatico del parlamento a soli due anni dal 1972. Lino Salvini temé il “colpo di Stato” e lo disse apertis verbis in massoneria, asserendo di essere stato informato da Licio Gelli di questa probabilità. Anzi, non più di golpe, si parlò, ma di “possibili soluzioni politiche di tipo autoritario”. Era il golpe soft, il colpo di Stato “di centro”, il nuovo modo di fare politica reazionaria. Rispondeva meglio alla nuova strategia mondiale dei “piccoli passi”…
Chi ruppe tutto fu il voto del 14 maggio, la catastrofe per Fanfani, l’improvvisa fuga in tutte le direzioni. L’elettorato comunista aveva tenuto benissimo, il voto comunista era determinante per salvare la legge sul divorzio, comunisti e “laici” stavano da una parte, vincenti, la Dc e il Msi dall’altra, inchiodati accanto e perdenti. Restavano a Fanfani i cocci e pochi fedelissimi. Gli estremisti neofascisti furono i primi a rompere le righe, a sfuggire ad ogni controllo. Il 28 maggio 1974 fu la strage in piazza della Loggia a Brescia. La strage sul treno Italicus, nella galleria ferroviaria che divide la stazione di Vernio da quella di San Benedetto in val di Sambro, seguì a poco più di due mesi, il 4 agosto. Era quasi una riaffermazione polemica di volontà omicida.

Alberto Cecchi “Storia della P2”

“Caso Miceli – Questo sì che è un memoriale” – L’Espresso 19.01.1975

Roma. Dall’ufficio padovano del giudice Tamburino sono arrivati ai magistrati romani gli ultimi dossier dell’istruttoria sulla Rosa dei venti: in tutto 16 casse di roba, tra reperti, documenti e le migliaia di pagine di atti che il giudice istruttore Filippo Fiore e il pubblico ministero Claudio Vitalone hanno cominciato ad esaminare a tappe forzate.
Sembrano già emersi buoni motivi per affermare che l’inchiesta di Tamburino non appare “inconsistente ed illogica”, come l’ha definita l’avvocato generale dello Stato Di Majo nella sua richiesta di scarcerazione di Miceli; ma ancorata a solide testimonianze ed a una serie di indizi, in una struttura ben più concreta di quanto la magistratura romana non avesse voluto immaginare.
Dalle prima indiscrezioni e dalle numerose testimonianze da noi raccolte tra i testi e gli imputati di questa indagine siamo in grado di costruire una prima cronistoria ragionata degli sviluppi dell’istruttoria sulla Rosa fino al momento in cui è stata (provvisoriamente?) troncata.

Quando, il 24 dicembre ’73, Giovanni Tamburino e Luigi Nunziante prendono in mano per 1a prima volta gli atti della Rosa dei venti (in pratica il dossier consegnato da Porta Casucci, con i piani eversivi ed i progetti di occupazione di intere città), sono scettici ed increduli. Su cosa possono basarsi simili progetti? E’ più facile immaginarli frutto di mitomania, o farneticazioni, che non credere in una “organizzazione” clandestina, ancora del tutto ignota, tale da programmare azioni di questa portata. Però, dopo aver esaminato il materiale e aver compiuto i primi interrogatori, un elemento colpisce l’attenzione dei magistrali, una ben percepibile “presenza militare” nella faccenda: la si nota nello stesso modo dì esprimersi degli imputati civili (“siamo ufficiali dì collegamento”, “gli ordini non si discutono”, “l’onore della patria e della bandiera”), e nelle modalità dell’organizzazione e dei collegamenti (numeri al posto dei nomi, uso di codici cifrati, eccetera).

E’ appunto un cifrario militare il primo elemento che fornisce a Tamburino la verifica che vi è qualcosa di concreto, e che lo spinge ad andare avanti.
Intatti a tre imputati Rampazzo, Rizzato e De Marchi, era stata trova tu la copia di un cifrario militare del 1959, Nonostante che i comandi consultati avessero affermato al magistrato che la ricerca dell’originale equivaleva a quella di un ago in un pagliaio, Tamburino riesce rapidamente a scoprire che il codice proveniva dalla caserma “Duca” di Montorio Veronese, dove un tenente colonnello, Amos Spiazzi. comandava l’ufficio Informazioni. D’altra parte il nome “Amos” figurava in un appunto sequestrato all’ex cassiere della Rosa, De Marchi: e da un’indagine indiziaria condotta a Verona, partita da alcuni numeri dì telefono, era risultato che una serie di personaggi collegati al gruppo eversivo avevano in comune l’amicizia con Spiazzi. Il 13 gennaio ’74, dopo una perquisizione in casa sua (dove viene trovato un arsenale di armi da guerra), il colonnello nero di Verona è arrestato.

Nel frattempo gli inquirenti esaminano due coupons di assegni circolari trovati nello studio di De Marchi; con veloce indagine bancaria (facilitata dall’esperienza dì ex impiegato di banca dì Tamburino) risalgono una serie di assegni firmati con falsi nomi e arrivano ad un ordinativo dì 20 milioni (del Banco di Chiavari) pagati dalla società “la Gaiana” (di Andrea Piaggio, amministrata da Attilio Lercari) a Spiazzi. Un elemento concreto da contestare al colonnello che negli interrogatori affermava tenacemente di non sapere niente e di non conoscere nessuno dei coimputati. Sempre in questo periodo, nel febbraio, un giovane imputato di 25 anni, Roberto Cavallaro, si decide a parlare. In un interrogatorio fiume durato dodici ore descrive l’organizzazione della Rosa dei venti (in cui, a suo dire, sarebbero coinvolti 86 ufficiali) racconta dei programmi, dei progetti di attentati, dei rapporti con i finanziatori genovesi, e soprattutto descrive una complessa rete di collegamento con l’estrema destra: la Valtellina, il Mar, Fumagalli, il gruppo eversivo torinese di Pomare e Micalizio, il nuovo Ordine nero (ed è la prima volta che il gruppo sorto dalle ceneri di Ordine Nuovo viene chiamato con questo nome). Inoltre Cavallaro ammette di aver usato un nome falso, di essersi spacciato per ufficiale mettendosi la divisa, e di aver compiuto una serie di azioni, e dice che era stato Spiazzi a dargli gli incarichi, nell’ambito di una “organizzazione” segreta.
I magistrati hanno dunque nuovi elementi per mettere Spiazzi alle strette. Il 6 aprile lo pongono a confronto con Cavallaro. Per due ore Spiaci tiene duro e finge di non conoscerlo. Poi crolla psicologicamente ed ammette alcune cose, trincerandosi però dietro una linea difensiva che riuscirà a tener in piedi per qualche tempo: l’organizzazione c’è, ma è legale e patriottica, ha lo scopo di combattere la “sovversione comunista” e di appoggiare e finanziare delle azioni “per il bene della patria”.

Ci sono però una serie di elementi che contrastano con tale versione. Se l’organizzazione è legale e legalitaria, come afferma Spiazzi, perché si avvale di modalità palesemente cospiratorie e di una struttura accuratamente clandestina? Inoltre i magistrati riescono a raccogliere altre testimonianze e confessioni di imputati. Per esempio, un teste ed un imputato, Orlandini e Rampazzo, raccontano chiedeva ai rosaventisti “azioni serie e concrete”, in pratica attentati; è infatti lui, aggiungono, il finanziatore della tentata strage sul treno di Nico Azzi.
Nell’aprile scorso Tamburino e Nunziante compiono un primo viaggio per chiedere al capo di Stato Maggiore, Henke, se è possibile che esista, a fianco delle forze armate, un’organizzazione legale “di sostegno” del tipo della Rosa.
Ed è proprio Henke a chiamare in causa Miceli, dicendo ai magistrati che il capo del Sid meglio di lui può dare chiarimenti in merito. Miceli si presenta, ma nega tutto e di chiarimenti non ne dà. Però in un secondo confronto Spiazzi-Cavallaro, ai primi di maggio, il tenente colonnello ammette di essersi mosso nell’ambito di un’organizzazione clandestina di cui fanno parte sopra di lui « alti ufficiali e importanti uomini politici ». E Spiazzi si dice scandalizzato del fatto che i suoi « superiori » non siano stati spinti « da doveroso senso dell’onore a farsi avanti per assumesi le proprie responsabilità». Inoltre, ed è la confessione fondamentale che permetterà ai magistrati di arrivare a Miceli, spiega da chi è stato “attivato” ad entrare nella Rosa « per collegarla ad ambienti militari e finanziari ». E’ il capitano dei carabinieri di Conegliano Veneto, uomo del Sid, Mauro Venturi, che gli impartì l’ordine cifrato per telefono. Spiazzi aggiunge che doveva rendere conto del suo operaio clandestino solo al superiore di Venturi, il colonnello Federico Marzollo, ex capo del Sid di Verona e segretario di Miceli, poi capo del Raggruppamento Centri C. S. di Roma.

Con i nuovi elementi in mano, il 27 maggio, i magistrati padovani tornano a Roma per interrogare l’ex capo dei Sid: Miceli nega di sapere niente sulla Rosa, su Spiazzi, e sugli altri ufficiali coinvolti, come il generale Nardella e il colonnello Dominioni, ma si rifiuta di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Sul generale Ricci, denunciato quale rosaventista da Spiazzi, Cavallaro e De Marchi, Miceli manderà addirittura un rapporto scritto che lo definisce « sicura figura di democratico ». Ma a settembre, quando Andreotti passa alla magistratura i dossier sui golpe, la situazione di Miceli precipita. Dai documenti e dai nastri registrati risulta che il Sid, contrariamente a quanto affermato da Miceli, era perfettamente al corrente delle attività della Rosa golpista. Miceli ripiega su una nuova linea di difesa: il mio vice, Maletti, non mi teneva al corrente di queste cose, dice.

Si arriva così ai primi di ottobre, al drammatico confronto Miceli-Maletti. Miceli tenta di far giocare anche a Maletti la carta dello scaricabarile: « Ma forse non sei stato informato da La Bruna (il capitano che lavora per l’ufficio “D” diretto da Miceli) gli suggerisce. Maletti però non abbocca, « La Bruna mi ha sempre informato, ed io ho sempre informato lei », risponde.
Subito dopo Tamburino, esaminando alcuni dossier del Sid passatigli da Casardi, ha la prova concreta delle menzogne di Miceli: un fascicolo datato settembre ’73 e intitolato “Contatti in corso tra il maggiore Spiazzi e l’avvocato De Marchi per l’organizzazione Gersi-Rosa dei venti”, contenente la minuziosa descrizione dell’attività eversiva del gruppo, è folto di appunti e disposizioni scritte a mano dallo stesso Miceli. Che vi siano elementi per affermare che non si tratti di semplice “favoreggiamento” è lo stesso Maletti a suggerirlo facendo notare ai magistrati che i rapporti tra Miceli e Marzollo (quello che aveva “attivato” Spiazzi) si muovevano su un terreno clandestino e anticostituzionale.

In questo senso i giudici padovani erano convinti che Miceli non fosse un “punto d’arrivo”, ma un “passaggio obbligato” che porta a responsabilità di uomini politici (vedi l’istruzione di Tanassi a Miceli di “dire il meno possibile” agli inquirenti), e si accingevano a muoversi in questa direzione. Inoltre Tamburino e Nunziante, contrariamente alla tesi avocatoria dei magistrali romani, sono convinti che la Rosa dei venti non è affatto un’emanazione del Fronte nazionale di Valerio Borghese, ma un’organizzazione autonoma, assai più importante, ed in concorrenza con i “vecchi ed ingenui” programmi del Fronte, che in alcuni casi continuava a sopravvivere parallelamente.

Mario Scialoja – L’Espresso 19.01.1975

Documento sulla Guerra Rivoluzionaria sequestrato a Maurizio Neri

(…) L’obbiettivo della guerra rivoluzionaria è la distruzione del sistema in 4 fasi: la propaganda – l’organizzazione – l’infiltrazione – la presa del potere.
Le prima due sono superate, la terza è in corso. Ci siamo infiltrati nei corpi dello stato, abbiamo fatto quello che con altri mezzi sta portando a compimento il PCI. Ovviamente mai con maggiore difficoltà. L’ultima fase: la presa del potere è ancora lontana, ma le cose possono cambiare rapidamente. Comunque oggi lavoriamo per indebolire il potere che da trentanni ha il potere in Italia, intendiamo colpire i suoi gangli vitali, i suoi uomini più rappresentativi (industriali, onorevoli, giudici), questo è il programma attuale, poi quando il PCI sarà al governo (non manca molto) sarà l’ora di tornare tutti in Italia, per compiere azioni ancora più dirette, più spettacolari.

Europeo sappi se lotti e muori non morirai invano dal tuo sangue nasceranno altri rivoluzionari. La repressione non fermerà la rivoluzione.