“Caso Miceli – Questo sì che è un memoriale” – L’Espresso 19.01.1975

Roma. Dall’ufficio padovano del giudice Tamburino sono arrivati ai magistrati romani gli ultimi dossier dell’istruttoria sulla Rosa dei venti: in tutto 16 casse di roba, tra reperti, documenti e le migliaia di pagine di atti che il giudice istruttore Filippo Fiore e il pubblico ministero Claudio Vitalone hanno cominciato ad esaminare a tappe forzate.
Sembrano già emersi buoni motivi per affermare che l’inchiesta di Tamburino non appare “inconsistente ed illogica”, come l’ha definita l’avvocato generale dello Stato Di Majo nella sua richiesta di scarcerazione di Miceli; ma ancorata a solide testimonianze ed a una serie di indizi, in una struttura ben più concreta di quanto la magistratura romana non avesse voluto immaginare.
Dalle prima indiscrezioni e dalle numerose testimonianze da noi raccolte tra i testi e gli imputati di questa indagine siamo in grado di costruire una prima cronistoria ragionata degli sviluppi dell’istruttoria sulla Rosa fino al momento in cui è stata (provvisoriamente?) troncata.

Quando, il 24 dicembre ’73, Giovanni Tamburino e Luigi Nunziante prendono in mano per 1a prima volta gli atti della Rosa dei venti (in pratica il dossier consegnato da Porta Casucci, con i piani eversivi ed i progetti di occupazione di intere città), sono scettici ed increduli. Su cosa possono basarsi simili progetti? E’ più facile immaginarli frutto di mitomania, o farneticazioni, che non credere in una “organizzazione” clandestina, ancora del tutto ignota, tale da programmare azioni di questa portata. Però, dopo aver esaminato il materiale e aver compiuto i primi interrogatori, un elemento colpisce l’attenzione dei magistrali, una ben percepibile “presenza militare” nella faccenda: la si nota nello stesso modo dì esprimersi degli imputati civili (“siamo ufficiali dì collegamento”, “gli ordini non si discutono”, “l’onore della patria e della bandiera”), e nelle modalità dell’organizzazione e dei collegamenti (numeri al posto dei nomi, uso di codici cifrati, eccetera).

E’ appunto un cifrario militare il primo elemento che fornisce a Tamburino la verifica che vi è qualcosa di concreto, e che lo spinge ad andare avanti.
Intatti a tre imputati Rampazzo, Rizzato e De Marchi, era stata trova tu la copia di un cifrario militare del 1959, Nonostante che i comandi consultati avessero affermato al magistrato che la ricerca dell’originale equivaleva a quella di un ago in un pagliaio, Tamburino riesce rapidamente a scoprire che il codice proveniva dalla caserma “Duca” di Montorio Veronese, dove un tenente colonnello, Amos Spiazzi. comandava l’ufficio Informazioni. D’altra parte il nome “Amos” figurava in un appunto sequestrato all’ex cassiere della Rosa, De Marchi: e da un’indagine indiziaria condotta a Verona, partita da alcuni numeri dì telefono, era risultato che una serie di personaggi collegati al gruppo eversivo avevano in comune l’amicizia con Spiazzi. Il 13 gennaio ’74, dopo una perquisizione in casa sua (dove viene trovato un arsenale di armi da guerra), il colonnello nero di Verona è arrestato.

Nel frattempo gli inquirenti esaminano due coupons di assegni circolari trovati nello studio di De Marchi; con veloce indagine bancaria (facilitata dall’esperienza dì ex impiegato di banca dì Tamburino) risalgono una serie di assegni firmati con falsi nomi e arrivano ad un ordinativo dì 20 milioni (del Banco di Chiavari) pagati dalla società “la Gaiana” (di Andrea Piaggio, amministrata da Attilio Lercari) a Spiazzi. Un elemento concreto da contestare al colonnello che negli interrogatori affermava tenacemente di non sapere niente e di non conoscere nessuno dei coimputati. Sempre in questo periodo, nel febbraio, un giovane imputato di 25 anni, Roberto Cavallaro, si decide a parlare. In un interrogatorio fiume durato dodici ore descrive l’organizzazione della Rosa dei venti (in cui, a suo dire, sarebbero coinvolti 86 ufficiali) racconta dei programmi, dei progetti di attentati, dei rapporti con i finanziatori genovesi, e soprattutto descrive una complessa rete di collegamento con l’estrema destra: la Valtellina, il Mar, Fumagalli, il gruppo eversivo torinese di Pomare e Micalizio, il nuovo Ordine nero (ed è la prima volta che il gruppo sorto dalle ceneri di Ordine Nuovo viene chiamato con questo nome). Inoltre Cavallaro ammette di aver usato un nome falso, di essersi spacciato per ufficiale mettendosi la divisa, e di aver compiuto una serie di azioni, e dice che era stato Spiazzi a dargli gli incarichi, nell’ambito di una “organizzazione” segreta.
I magistrati hanno dunque nuovi elementi per mettere Spiazzi alle strette. Il 6 aprile lo pongono a confronto con Cavallaro. Per due ore Spiaci tiene duro e finge di non conoscerlo. Poi crolla psicologicamente ed ammette alcune cose, trincerandosi però dietro una linea difensiva che riuscirà a tener in piedi per qualche tempo: l’organizzazione c’è, ma è legale e patriottica, ha lo scopo di combattere la “sovversione comunista” e di appoggiare e finanziare delle azioni “per il bene della patria”.

Ci sono però una serie di elementi che contrastano con tale versione. Se l’organizzazione è legale e legalitaria, come afferma Spiazzi, perché si avvale di modalità palesemente cospiratorie e di una struttura accuratamente clandestina? Inoltre i magistrati riescono a raccogliere altre testimonianze e confessioni di imputati. Per esempio, un teste ed un imputato, Orlandini e Rampazzo, raccontano chiedeva ai rosaventisti “azioni serie e concrete”, in pratica attentati; è infatti lui, aggiungono, il finanziatore della tentata strage sul treno di Nico Azzi.
Nell’aprile scorso Tamburino e Nunziante compiono un primo viaggio per chiedere al capo di Stato Maggiore, Henke, se è possibile che esista, a fianco delle forze armate, un’organizzazione legale “di sostegno” del tipo della Rosa.
Ed è proprio Henke a chiamare in causa Miceli, dicendo ai magistrati che il capo del Sid meglio di lui può dare chiarimenti in merito. Miceli si presenta, ma nega tutto e di chiarimenti non ne dà. Però in un secondo confronto Spiazzi-Cavallaro, ai primi di maggio, il tenente colonnello ammette di essersi mosso nell’ambito di un’organizzazione clandestina di cui fanno parte sopra di lui « alti ufficiali e importanti uomini politici ». E Spiazzi si dice scandalizzato del fatto che i suoi « superiori » non siano stati spinti « da doveroso senso dell’onore a farsi avanti per assumesi le proprie responsabilità». Inoltre, ed è la confessione fondamentale che permetterà ai magistrati di arrivare a Miceli, spiega da chi è stato “attivato” ad entrare nella Rosa « per collegarla ad ambienti militari e finanziari ». E’ il capitano dei carabinieri di Conegliano Veneto, uomo del Sid, Mauro Venturi, che gli impartì l’ordine cifrato per telefono. Spiazzi aggiunge che doveva rendere conto del suo operaio clandestino solo al superiore di Venturi, il colonnello Federico Marzollo, ex capo del Sid di Verona e segretario di Miceli, poi capo del Raggruppamento Centri C. S. di Roma.

Con i nuovi elementi in mano, il 27 maggio, i magistrati padovani tornano a Roma per interrogare l’ex capo dei Sid: Miceli nega di sapere niente sulla Rosa, su Spiazzi, e sugli altri ufficiali coinvolti, come il generale Nardella e il colonnello Dominioni, ma si rifiuta di mettere a verbale le sue dichiarazioni. Sul generale Ricci, denunciato quale rosaventista da Spiazzi, Cavallaro e De Marchi, Miceli manderà addirittura un rapporto scritto che lo definisce « sicura figura di democratico ». Ma a settembre, quando Andreotti passa alla magistratura i dossier sui golpe, la situazione di Miceli precipita. Dai documenti e dai nastri registrati risulta che il Sid, contrariamente a quanto affermato da Miceli, era perfettamente al corrente delle attività della Rosa golpista. Miceli ripiega su una nuova linea di difesa: il mio vice, Maletti, non mi teneva al corrente di queste cose, dice.

Si arriva così ai primi di ottobre, al drammatico confronto Miceli-Maletti. Miceli tenta di far giocare anche a Maletti la carta dello scaricabarile: « Ma forse non sei stato informato da La Bruna (il capitano che lavora per l’ufficio “D” diretto da Miceli) gli suggerisce. Maletti però non abbocca, « La Bruna mi ha sempre informato, ed io ho sempre informato lei », risponde.
Subito dopo Tamburino, esaminando alcuni dossier del Sid passatigli da Casardi, ha la prova concreta delle menzogne di Miceli: un fascicolo datato settembre ’73 e intitolato “Contatti in corso tra il maggiore Spiazzi e l’avvocato De Marchi per l’organizzazione Gersi-Rosa dei venti”, contenente la minuziosa descrizione dell’attività eversiva del gruppo, è folto di appunti e disposizioni scritte a mano dallo stesso Miceli. Che vi siano elementi per affermare che non si tratti di semplice “favoreggiamento” è lo stesso Maletti a suggerirlo facendo notare ai magistrati che i rapporti tra Miceli e Marzollo (quello che aveva “attivato” Spiazzi) si muovevano su un terreno clandestino e anticostituzionale.

In questo senso i giudici padovani erano convinti che Miceli non fosse un “punto d’arrivo”, ma un “passaggio obbligato” che porta a responsabilità di uomini politici (vedi l’istruzione di Tanassi a Miceli di “dire il meno possibile” agli inquirenti), e si accingevano a muoversi in questa direzione. Inoltre Tamburino e Nunziante, contrariamente alla tesi avocatoria dei magistrali romani, sono convinti che la Rosa dei venti non è affatto un’emanazione del Fronte nazionale di Valerio Borghese, ma un’organizzazione autonoma, assai più importante, ed in concorrenza con i “vecchi ed ingenui” programmi del Fronte, che in alcuni casi continuava a sopravvivere parallelamente.

Mario Scialoja – L’Espresso 19.01.1975

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