In queste settimane L’Europeo ha indagato sulle diverse facce del terrore nero: quella dei legami oscuri con l’apparato statale, quella, più recente, dei rapporti istituzionali con la malavita (sequestri, rapine, riciclaggi e altro), quella della preparazione e dell’attuazione del terrorismo politico puro. Terrorismo che, abbiamo visto, si deve più correttamente definire « di centro », o bianco.
Ma il terrore ha un’altra faccia, spesso dimenticata. Quella dell’abbandono, o del « tradimento ». Decine e decine di giovani, usati per anni dai corpi separati dello Stato attraverso le organizzazioni di estrema destra, addestrati con cura all’attentato, alla rapina, alla violenza, all’assassinio politico (due settimane fa abbiamo parlato del segreto campo di addestramento di Alghero) sono stati poi abbandonati dai loro protettori.
Con minore o maggior durezza, i più sono stati « invitati » al silenzio e formano oggi il piccolo esercito degli espatriati, ricattabili e pronti a tutto. Come Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio. Alcuni, depositari di segreti irrivelabili, sono stati giustiziati: vale per tutti l’esempio di Giancarlo Esposti, colpito a morte nell’imboscata di Pian del Rascino. E del resto, quella pallottola nel collo di Mario Tuti al momento dell’arresto non ha mai avuto una plausibile giustificazione.
Fra i giustiziati la pubblicistica ha inserito i giovani fascisti colpiti da morti misteriose. L’elenco è lungo: gli ultimi due nomi sono particolarmente interessanti. Qualche mese fa, Bruno Stefàno, Avanguardia nazionale e poi Ordine nuovo, amico di Stefano Delle Chiaie, di Gianni Nardi e dei veneti di Freda, viene dato per morto in Svizzera. La notizia è definita certa dalla polizia, ma il corpo di Stefàno non è mai stato trovato, né mai sono state svelate le circostanze della sua morte. A metà settembre, infine, Gianni Nardi muore in un incidente d’auto a Palma di Majorca. In circostanze altrettanto misteriose.
La morte di Nardi ha avuto l’onore della cronaca, sui giornali italiani, per due giorni. Qualcuno vi ha visto dietro le mani del potere. Qualcun altro ha segnalato piccole « stranezze ». Poi tutto è finito. Abbiamo voluto condurre un’inchiesta in Spagna. La sua conclusione è sconcertante: secondo noi, Gianni Nardi non è mai morto. Eppure il suo caso, questo caso, è pur sempre un esempio dell’altra faccia del terrore. Un esempio atipico, come atipico è il personaggio Gianni Nardi, con tutti i suoi miliardi e con le palesi protezioni che, per lui, certo non svaniscono nell’arco di una stagione. Ecco i risultati della nostra inchiesta.
L’incidente
Palma di Majorca, venerdì 10 settembre, cinque e mezzo del pomeriggio. Sulla strada che va da Santani a Las Palmas, al chilometro trentaquattro, poco fuori il paesino di Campos, una Fiat 127 esce troppo forte da una curva difficile, sbanda sulla sinistra e si schianta contro un camion che viene in senso opposto. L’auto ha una targa italiana: Vicenza 323885. L’incidente provoca un morto.
Del fatto, prima « stranezza », non si sa nulla per sette giorni. È soltanto il venerdì seguente, infatti, che la Guardia Civil di Palma dà una prima versione dell’incidente: la comunica a un giornalista che telefona da Madrid. Questa la versione: nello scontro è morto un cittadino boliviano, Arnaldo Costa Vina; era alla guida della Fiat; nell’auto sono stati trovati i suoi documenti e la sua patente rilasciata a La Paz.
Dopo la telefonata circola per Madrid il nome di Gianni Nardi. Suoi parenti si sono recati a Palma (e già sono rientrati in Italia). Al centralino dell’isola è giunta una valanga di chiamate dall’Italia: amici, giornalisti e anche uomini dello Stato. Il giornalista di Madrid richiama la Guardia Civil di Palma e riceve questa seconda versione: a bordo dell’auto c’erano due persone, l’autista boliviano, che è morto, e un italiano, certo Giuseppe Ascoli, che è rimasto ferito solo leggermente. Questo nome è falso (lo provano controlli effettuati in seguito), ma è un nome falso-logico: Giuseppe si chiama il proprietario dell’auto, un generale italiano amico del Nardi, e Ascoli è la città natale di Gianni Nardi (oltre che del generale).
Questa seconda versione della Guardia Civil, comunque, deve terribilmente spaventare il Comando. Evidentemente l’ha fornita qualche ingenuo poliziotto che lì per lì ha consultato le carte dell’incidente (come fa infatti uno spagnolo a inventare un nome come quello di Giuseppe Ascoli che calza così bene al ricercato Gianni Nardi? ). Sta di fatto che il comando della guardia di Palma si premura subito dopo di richiamare il giornalista di Madrid (in Spagna non capita mai, per prassi ormai quarantennale, che la polizia chiami la stampa) per avvisarlo che la seconda versione è falsa: sull’auto c’era soltanto il boliviano. Un deplorevole errore.
Che a bordo della Fiat ci fosse un boliviano, comunque, la polizia di Palma era ben convinta: subito dopo l’incidente, infatti, la Guardia segnala il fatto al consolato generale di Bolivia a Barcellona. Ma, invece di parenti boliviani, giungono a Palma (quattro giorni dopo lo scontro) l’avvocato di Nardi, Fabio Dean, la madre Cecilia e uno zio materno. Seconda « stranezza »: come hanno fatto a sapere, così rapidamente, che Gianni è coinvolto nell’incidente? L’avvocato Dean sostiene che il riconoscimento di Gianni Nardi è stato fatto dalla polizia spagnola subito dopo lo scontro: ciò contrasta con la segnalazione della polizia stessa al consolato di Bolivia e con le tre telefonate. Una settimana dopo i poliziotti parlavano ancora di boliviano, perché?
Il mistero con cui la Guardia Civil copre l’intera vicenda appare molto significativo. Dopo le risposte telefoniche di settembre essa non ha più voluto offrire spiegazioni, né mai ha comunicato notizie precise sull’incidente, né mai ha rilasciato fotografie. Infine non ha mai voluto fornire il nome del camionista investito, testimone decisivo sulla presenza di una o due persone a bordo della Fiat 127 finita sotto le ruote del camion. Ho telefonato alla Guardia di Las Palmas. Due mesi dopo l’incidente, non mi ha fornito alcun dato e ha motivato il silenzio con il « necessario riserbo » dovuto al fatto che l’inchiesta è in mano a un non meglio precisato giudice di Manacor. Ci si chiede: perché un’inchiesta giudiziaria su un semplice incidente stradale? Ci si chiede ancora: che motivo ha il « necessario riserbo » quando le responsabilità sono ben definite (la Fiat è piombata sulla corsia di sinistra)?
Se la Guardia Civil resta silenziosa, qualcosa è pur possibile sapere da chi ha potuto seguire a Las Palmas gli sviluppi della vicenda. Qualcosa di molto significativo. Martedì 14 settembre giungono nell’isola l’avvocato e i parenti di Gianni Nardi (ripartono tre giorni dopo). Arrivano per il riconoscimento. Come viene effettuato? Non dalla madre (che quindi non vede il corpo di suo figlio), non dall’avvocato (che come unica prova ha dunque la lettura del certificato di morte), ma dallo zio del Nardi. È la seconda « stranezza » della vicenda: non si sa chi sia questo zio e, comunque, anche di questo riconoscimento non viene fornito alcun documento. Come si fa a dire con certezza, allora, che il « boliviano » ucciso è proprio Gianni Nardi? Non si sa.
Il corpo dell’ucciso alla curva di Campos viene provvisoriamente sepolto a Las Palmas. In attesa, evidentemente, del suo trasferimento nella tomba della famiglia Nardi, ad Ascoli Piceno. Qui siamo di fronte alla terza « stranezza », che appare macroscopica: sono passati due mesi è il corpo definito di Gianni Nardi è ancora là, nell’isola spagnola. Ci siamo informati: per il trasporto è sufficiente l’autorizzazione del prefetto della regione che, in questi casi (non è un semplice incidente stradale?), viene concessa con estrema rapidità. E allora? Nel settimanale spagnolo Posible, che da un paio di settimane avanza dubbi sulla morte di Nardi, scrive nell’ultimo numero: « Una volta che tutto era regolato [per il trasporto, n.d.r.], giunge la strana novità che la madre, che era andata a Palma per prendere il corpo del figlio, mostrava il suo disinteresse sull’argomento ». Non sappiamo se è disinteresse: sottolineiamo il dato di fatto che, due mesi dopo, il corpo dell’ucciso di Campos è ancora là, a Palma.
Una piccola notazione politica. Ai dubbi di Posible ha replicato con violenza il quotidiano falangista di Palma, Baleares. « Il corpo è senza ombra di dubbio quello di Nardi, voi giocate con i morti », ha scritto, e ha proseguito con pesanti offese alla nuova stampa spagnola. Significativa è l’impennata dell’estrema destra locale, che per coerenza politica avrebbe dovuto porre dubbi sulla morte del camerata e non sostenere a spada tratta, semplicemente, che il morto è proprio lui. Ma ancora più significativo è il fatto che l’organo falangista di Palma non ha smentito uno solo dei dubbi che circondano la morte di Nardi, non ha pubblicato un documento, una dichiarazione, un’intervista, non ha portato una prova che è una. L’incongruenza è stata rilevata da alcuni quotidiani di Madrid che stanno assaporando, in questi mesi, l’ebbrezza della critica alle posizioni ufficiali, del governo, dei funzionari, della polizia.
La quarta « stranezza » è la più grave. Essa inquadra direttamente il caso Nardi in quello che ha tutta l’aria di essere: un « affaire » politico. Sino a due settimane dopo l’incidente, dunque, nulla indica che il morto di Campos sia con certezza Gianni Nardi. Date per buone tutte le notizie e lo stesso riconoscimento, manca ancora una dichiarazione ufficiale. La Guardia Civil, ufficialmente, non ha mai detto che l’ucciso nell’incidente sia Gianni Nardi. Il 17 settembre l’Antiterrorismo italiano dichiara che è « indispensabile accertare l’identità dell’uomo morto a Palma, perché sarebbe il secondo del terzetto a sparire » (il primo è Bruno Stefàno, la terza è la tedesca Gudrun Kiess). Lo stesso giorno, Antonio Delfino, vicedirigente della sezione italiana dell’Interpol, dichiara a La Stampa: « La certezza della sua identità la potremo avere soltanto quando sarà fatto il confronto delle impronte digitali ». Ecco, le impronte. È stato fatto questo confronto? No. Più precisamente (è la quarta « stranezza ») la Guardia Civil ha fatto arrivare le impronte dell’ucciso sia all’Interpol che al ministero dell’Interno italiano. Sono passati due mesi e in Spagna non hanno ricevuto nulla: non solo i risultati del confronto, ma neppure il riscontro dell’arrivo delle impronte con la promessa di esaminarle al più presto, come è prassi. Che cosa nasconde questo nuovo disinteresse? Che cosa è tutto questo silenzio su una vicenda, abbiamo visto, zeppa di « stranezze »?
Il terrorismo
A tutt’oggi, dunque, resta il fatto, incontrovertibile, che ufficialmente il morto di Palma non è ancora Gianni Nardi. Chi è allora? Avanziamo un’ipotesi, che può d’incanto spiegare tutte le « stranezze » della vicenda. Gianni Nardi è quel Giuseppe Ascoli seduto accanto al falso boliviano che guida la Fiat. Tra l’altro egli non ha mai avuto la patente e sempre ha amato farsi scortare da amici-gorilla. O da sosia, come quel Mario Merlini che lo seguiva nelle imprese ascolane e milanesi. Seguiamo l’ipotesi. Ascoli-Nardi resta ferito nell’incidente, il falso boliviano muore. Ascoli-Nardi vede allora nella vicenda una occasione unica per « scomparire » e, muovendo le amicizie che ha (più i milioni), mette in piedi la storia della sua morte. Si spiegherebbero così i tempi strani della vicenda, le incognite della Guardia Civil, il corpo ancora a Palma, le impronte che non arrivano (per inciso, quand’anche arrivassero potrebbero avere un valore di prova relativo: Gianni Nardi vivo, infatti, muovendo le solite e antiche amicizie, può ben far giungere a Roma sue impronte).
Questa è un’ipotesi. Un’altra è quella dell’incidente provocato e ciò spiegherebbe l’inchiesta della magistratura spagnola. Altre ipotesi sono possibili. Tutte comunque portano il segno dell’altra faccia del terrorismo politico, quella dell’abbandono. Gianni Nardi vuole scomparire o, ipotesi alternativa, deve scomparire. Perché?
Nardi è stato per molti anni una pedina di quel ramo dell’apparato statale che ha favorito e coperto le bande armate neofasciste con lo scopo di piegare verso destra (non troppo!) l’asse politico italiano. Una pedina di rilievo di quel ramo che aveva i suoi nuclei operativi nell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e del SID parallelo. Quel ramo lo ha usato in vari modi: lo ha protetto in numerose azioni e in numerosi traffici (di armi, ad esempio), lo ha costretto, più o meno spontaneamente, a subire l’accusa, poi rivelatasi falsa, di aver ucciso il commissario Calabresi. Un’accusa che serviva soltanto a sviare le indagini dai veri assassini e mandanti.
Nella primavera del 1974 Gianni Nardi viene gettato allo sbaraglio con il suo amico Giancarlo Esposti e con i resti di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, ormai fuorilegge. Il giudice bresciano Giovanni Arcai che ha indagato, sin che ha potuto, sulla vicenda di Pian del Rascino, è convinto che Esposti, prima di essere giustiziato, abbia ingaggiato la violenta sparatoria con i carabinieri per permettere a Nardi di fuggire. Resta il fatto che da interrogativi di altri neofascisti appare che, se Esposti era responsabile nel Reatino di quella che egli considerava una « guerriglia preparatoria della guerra civile», Nardi lo era per il versante marchigiano.
Il ministero
I due avevano appoggi sicuri che giungevano molto in alto. Al giudice Arcai l’istruttoria è stata tolta un anno fa, ma egli ha preparato una contro-requisitoria in cui ribadisce i precisi legami fra le bande armate e il ministero dell’Interno. In particolare, egli sostiene (nulla di ciò apparirà poi nell’indagine ufficiale, naturalmente) di aver individuato l’ufficiale del centro Italia che fornì all’Esposti la cartina dei posti di blocco della polizia e dei carabinieri. Dice Arcai sull’episodio: « Ritengo, sulla base di precise risultanze istruttorie, che tale ufficiale sia stato identificato nel maggiore di PS Mezzina, il cui arresto provvisorio il PM non volle convalidare.
Il maggiore Mezzina comandava all’epoca il gruppo guardia di PS di Frosinone; aveva subito una perquisizione domiciliare durante la quale era stato trovato, nel suo alloggio di servizio, Gianni Nardi, che aveva abbandonato il soggiorno obbligato di Ascoli Piceno e che vi permaneva da una ventina di giorni dopo essere rientrato clandestinamente dalla Spagna. L’alloggio di servizio dell’ufficiale era frequentato anche da Giancarlo Esposti ».
Gianni Nardi, dunque, in soggiorno obbligato ad Ascoli e poi latitante in Spagna è protetto e ospitato da un ufficiale di PS! Non basta: dall’ufficiale e dall’intera vicenda di Pian del Rascino il giudice Arcai risale, con nomi e cognomi, al ministero dell’Interno e al SID parallelo. È evidente che risale troppo e, come già un anno fa L’Europeo scrisse e come è ben documentato in un coraggioso libro pubblicato in questi giorni (Achille Lega e Giorgio Santerini, Strage a Brescia, potere a Roma, Mazzotta), un testimone improvviso coinvolge il figlio del giudice (quindici anni e mezzo all’epoca) nella strage di piazza della Loggia. L’inchiesta del padre, è ovvio, deve cambiare titolare. Quel tenue filo che porta al ministero dell’Interno si spezza.
Primavera ‘74
Ma che cosa succede in quella primavera del 1974? Succede che quel nucleo di potere statale che proteggeva Nardi e la gente come lui viene duramente colpito: l’Ufficio affari riservati è sciolto d’autorità subito dopo la strage di Brescia e l’altro SID prepara e attua, patrono Andreotti, l’attacco decisivo a Miceli. L’immediata conseguenza è che tutti i giovani protagonisti del terrore « nero » restano senza copertura: questa è la verità che il potere politico, Partito comunista incluso, vuole tener nascosta agli italiani. Così, Giancarlo Esposti viene giustiziato a Pian del Rascino, così decine di neofascisti vengono a ripetizione (e improvvisamente, dopo anni di protezione) colpiti da mandati di cattura e molti sono costretti a fuggire all’estero. I più entrano in quel giro « parallelo » (certo gestito dall’alto, ma non più o non esclusivamente con gli obiettivi politici di prima) che opera, a contatto con la malavita, nel campo dei sequestri, delle rapine, degli assassinii su ordinazione.
Qui non si vuole certo difendere i neofascisti, ma impedire che ancora una volta la stampa cada, in nome di un falso antifascismo, nei giochi del potere, del nuovo potere in questo caso: un pericolo di estrema destra in Italia non c’è più da anni, è inutile riesumarlo, magari con tardive inchieste giudiziarie, per coprire una nuova stabilizzazione. Il nuovo fascismo, se verrà, non sarà fatto dai volti di questi fanatici resti dell’ordinovismo, non sarà fatto da « alalà » né da slogan vecchi di cinquant’anni. Sarà fatto da altro su cui, questo è il dovere della stampa, sarà utile indagare. Si vestirà, magari, con i panni di una ferrea stabilizzazione.
Torniamo a Nardi. Dopo le disgrazie del suo « ramo » statale (primavera ’74) egli capisce di essere alla vigilia dell’abbandono. Dopo l’« esecuzione » di Esposti egli capisce che può diventare un capro espiatorio. Fugge allora in Spagna definitivamente. Malgrado sia soltanto accusato, in Italia, per una storia di armi e bossoli nella sua villa di Marino del Tronto, non vuole più tornare. Conoscendo l’ambiente e i suoi polli, avendo perduto di forza le sue protezioni, teme di essere di nuovo coinvolto nell’uccisione di Calabresi e di finire i suoi giorni in carcere.
In Spagna Nardi frequenta per un po’ l’ambiente del neofascismo in esilio e ne scopre le debolezze e la doppiezza. La famosa « Internazionale nera » spagnola è in realtà un’accozzaglia di cani sciolti neofascisti, di agenti spagnoli e italiani, di « manager » pronti a vendere notizie e uomini al miglior offerente. Più che un’Internazionale nera è un’Internazionale della malavita. Nardi tende a non frequentare questo ambiente, vede soltanto qualche amico di Barcellona che considera fidato. È ricco, e allora viaggia molto per l’Europa, è spesso in Svizzera, si concede le vacanze a Palma di Majorca, dove affitta un appartamento a Santani. Vuole tornare in Italia, questo desiderio lo esprime a molti. L’incidente può avergli fornito lo spunto, l’occasione. In tal modo spera che, morto ufficialmente, l’altra faccia del terrorismo non lo colpisca più.
CorradoIncerti, L’Europeo 26.11.1976
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