Polizia, carabinieri e magistratura conoscevano fin dalla primavera scorsa quasi tutti i nomi e i precedenti degli eversori neofascisti che operavano in Umbria e in Toscana e che, in un crescendo di attentati, cominciato il primo gennaio con un’esplosione che ha fatto saltare un traliccio dell’Enel a Pistoia, si proponevano di fare una strage, minando, giovedì 23 gennaio, con quindici chilogrammi di tritolo, l’edificio della Camera di commercio, al centro di Arezzo.
II Fronte. Invece che con quella strage, la catena di violenza si è chiusa, venerdì 24 gennaio, con l’agghiacciante uccisione del brigadiere di pubblica sicurezza Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo e con il ferimento dell’appuntato Arturo Rocca. A compiere il delitto è stato Mario Tuti, 29 anni, geometra, insospettabile impiegato modello del comune di Empoli, uno dei capi degli eversori, il solo di cui non si sapesse niente.
Notissimo era, invece, Augusto Cauchi, 24 anni, di Cortona, guardaspalle di Oreste Ghinelli, segretario del Movimento sociale di Arezzo, complice di Tuti e ricercato dalla sera di domenica 26 gennaio. Da un rapporto riservato del nucleo investigativo dei carabinieri di Perugia del 13 maggio dell’anno scorso, 82 giorni prima della strage sul treno Italicus Roma-Monaco (12 morti), risulta che, in una perquisizione a casa di Cauchi, a Verniana di Monte San Savino, era stata sequestrata una carta topografica con tratteggiato il percorso della linea ferroviaria Firenze-Bologna, proprio il tratto su cui avvenne l’eccidio.
Tuti e Cauchi facevano parte del Fronte nazionale rivoluzionario, una filiazione di Ordine Nero, l’organizzazione eversiva neofascista che si è attribuita tutta una serie di attentati della primavera scorsa, culminati nella strage di Brescia del 28 maggio (7 morti). Il Fronte aveva architettato anche l’attentato alla Camera di commercio di Arezzo (« Se fosse avvenuto, sarebbe stato un massacro », dice Emilio Santillo, capo dell’ispettorato antiterrorismo), previsto inizialmente per il giorno 22. Rinviata di 24 ore, perché gli organizzatori avevano avuto l’impressione, poi rivelatasi giusta, di sentirsi sorvegliati e pedinati, l’azione terroristica è stata sventata all’ultimo momento.
Dal 6 gennaio, infatti, Mario Marsili, un giudice toscano di 33 anni, sostituto procuratore della Repubblica ad Arezzo, era sul chi vive. Un macchinista di un treno merci diretto al Sud aveva notato per caso vicino a Terontola, sulla linea Firenze- Roma, che 85 centimetri di una rotaia erano stati divelti e aveva fermato il convoglio. Nel giro di due ore venne accertato che i binari erano stati minati nel corso della notte precedente e che 34 treni avevano corso il rischio di deragliare.
Immediatamente Emilio Santillo e Silvio Santacroce, questore di Arezzo, puntarono su due obiettivi: scoprire gli attentatori e individuare il luogo dove veniva tenuto nascosto l’esplosivo. Sedici giorni dopo, a pochi chilometri da Arezzo, venne trovata una santabarbara, contenente 18 chilogrammi di cheddite, un esplosivo ad alto potenziale, celata tra le rovine di una chiesetta dissacrata coperta dai rovi.
La sera stessa, era giovedì 23, la polizia sapeva già chi cercare. A colpo sicuro arrestò due persone: Luciano Franci, 28 anni, ex-democristiano, ex-missino, autista e anche lui guardaspalle di Oreste Ghinelli, impiegato alle poste della stazione di Firenze; e Piero Malentacchi, 25 anni, esponente di Ordine Nuovo, l’organizzazione estremista di destra messa fuori legge alla fine del 1973.
Due morti. Il giorno dopo venne arrestata Margherita Luddi, amica di Franci, 25 anni. Il sostituto procuratore della Repubblica le aveva messo il telefono sotto controllo e scoprì così che la ragazza aveva nascosto nella soffitta della casa di campagna di sua nonna, sull’Appennino toscano, venti detonatori, altrettante micce e tre casse di esplosivi. Non solo: Marsili venne a sapere anche che la Luddi cercava insistentemente per telefono un certo Mario, un nome che gli era già stato fatto da Franci nel corso del primo interrogatorio. Al magistrato non ci volle molto per scoprire che si trattava di Mario Tuti.
Così nel pomeriggio di venerdì Marsili ordinò la cattura di Tuti e, contemporaneamente, quelle di Roberto Giovanni Gallastroni, 22 anni, responsabile della sezione culturale del Movimento sociale nella zona di Montevarchi e capofila dei superstiti di Ordine Nuovo, e di Mario Morelli, 23 anni, detto il guercio (nella sua casa di Castiglion Fiorentino, vicino ad Arezzo, furono poi trovate 2 mila pallottole calibro 9, alcuni timer e carte topografiche delle zone di Orvieto, Perugia e Tuscania).
Per arrestare Tuti, la questura di Empoli mandò a casa sua, in via Boccaccio 26, nel centro della città, tre uomini a bordo di una volante. Giunti sul posto alle 20,30, il brigadiere Falco e l’appuntato Rocca, che conoscevano Tuti da tempo (ci giocavano anche a carte), suonarono alla porta di casa del geometra, mentre l’appuntato Ceravolo era rimasto in macchina con il motore acceso.
Tuti aprì subito: sua moglie Loretta e il figlio Werther, un bambino di due anni, erano a tavola. La moglie di Tuti abbassò il volume del televisore e il brigadiere Falco mostrò al geometra i mandati di perquisizione e di cattura. Per 35 minuti filati, Mario Tuti sciorinò ai due poliziotti tutte le autorizzazioni per la detenzione di armi. Quando gli venne chiesto se aveva anche il permesso per tenere in casa bombe a mano, uscì dal soggiorno per dire che andava a prenderlo: quando rientrò, impugnava un fucile a ripetizione che spara anche a raffica. Falco venne fulminato per primo, Rocca gravemente ferito, Ceravolo che, all’udire degli spari, si ei a precipitato per le scale impugnando la pistola, fu ucciso da un’altra raffica.
Fuggito senza giacca, con cinquemila lire in tasca, Tufi salì a bordo della 128 bianca della moglie. L’automobile venne ritrovata il giorno dopo in via Sarzanese, a Lucca. Ce l’aveva portata Mario Tuti o qualche complice nell’intento di deviare le indagini? Per ottenere una risposta, gli agenti dell’Antiterrorismo hanno frugato nelle agende di Franci e di Tuti in cerca di qualche indirizzo di Lucca. L’unico che hanno trovato è stato quello di Roy Affatigato, un ex-ordinovista passato a Ordine Nero. Precipitatisi a casa di Affatigato, gli agenti sono riusciti solo a sapere che l’estremista era scomparso la mattina di lunedì. Poi, il buio più completo.
Oltre che di Cauchi, i carabinieri avevano già seguito in passato anche i movimenti di Franci e Gallastroni. Durante le indagini sull’ attentato dinamitardo del 22 aprile 1974 alla casa del popolo di Moiano di Città della Pieve, in provincia di Perugia, avevano perquisito le loro case sequestrando armi, carte topografiche e volantini.
Ma l’attenzione dei carabinieri si era poi spostata su Massimo Batani, 21 anni, responsabile della sede di Arezzo di Ordine Nuovo per tutto il 1973, e rinviato poi a giudizio come uno degli esecutori materiali dell’attentato alla casa del popolo (fu arrestato il 6 luglio), di cui Ordine Nero aveva rivendicato la paternità. Era stato proprio Batani a rappresentare i camerati di Arezzo e dintorni al convegno di Cattolica (2-5 marzo 1974), da cui era nato Ordine Nero.
Individuati. Sotto questa nuova sigla si erano riuniti in una specie di federazione i bracci armati dei più noti movimenti neri. Tra i convenuti a Cattolica, una trentina, erano presenti con sicurezza alcuni fra i più noti esponenti del neofascismo italiano: Clemente Graziani, capo riconosciuto di Ordine Nuovo, attualmente latitante, Salvatore Francia, responsabile del settore stampa del movimento, colpito da innumerevoli mandati di cattura, rifugiato in Svizzera (si è trasferito lì in questi giorni, dopo essere stato a lungo a Barcellona, in Spagna), Luigi Falica, organizzatore del convegno, segretario del circolo bolognese « Il retaggio », famoso ritrovo di neofascisti, in carcere a Bologna.
Quando fu chiaro che gli organizzatori del nuovo gruppo eversivo erano tutti ex-appartenenti al disciolto Ordine Nuovo, Vittorio Occorsio, sostituto procuratore della Repubblica a Roma, aprì, il 2 giugno, un’inchiesta che si concluse in 40 giorni con il rinvio a giudizio di 119 persone, accusate di ricostituzione del partito fascista. Nella lista degli imputati figuravano parecchi esponenti del neofascismo umbro-toscano. Oltre a Cauchi, Gallastroni e Batani, la lista comprendeva anche i fratelli Euro e Marco Castori, di Perugia, fortemente sospettati per l’attentato all’ Italicus perché fuggiti in Svizzera all’indomani della strage.
Perfettamente individuata da tempo, dunque, la cellula eversiva di Arezzo, fatta eccezione per Massimo Batani, che era stato arrestato, ha continuato ad agire indisturbata per mesi. C’è voluta la scoperta dell’attentato alla linea ferroviaria Firenze-Roma del 6 gennaio per smuovere finalmente le acque. E solo il duplice delitto commesso da Mario Tuti ha spinto magistratura e Antiterrorismo a intervenire drasticamente, a dare uno scossone agli ambienti della destra extraparlamentare, rivelando collegamenti a livello nazionale e internazionale finora insospettati e collusioni esplicite tra gli eversori di estrema destra e il Movimento sociale.
Dal Msi. « Gli arrestati di Arezzo non solo provenivano tutti dalle file del Movimento sociale, ma alcuni ne facevano ancora parte », ammette apertamente Santillo. E lo stesso Occorsio, che ha indagato a livello nazionale sull’attività degli ordinovisti, ha confermato a Panorama: « Ad Arezzo estremismo eversivo e Movimento sociale si identificano e si confondono ».
Anche Mario Calamari, procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, noto per le sue tendenze conservatrici, ha sottolineato con vigore le responsabilità della cellula eversiva di estrema destra assicurando che i responsabili saranno perseguiti col massimo rigore. « Ci auguriamo di essere a una svolta radicale nella lotta all’eversione politica nel paese, alla eversione di destra quale essa è, come sta a testimoniare la documentazione finora raccolta », ha detto il ministro dell’Interno, Luigi Gui. All’Antiterrorismo preannunciano giornate calde, scandite da una selva di mandati di cattura. « Andrò fino in fondo », confida Mario Marsili, il magistrato che conduce l’inchiesta.
C’è tuttavia chi di fronte a questa vampata di antifascismo, manifesta qualche perplessità. « Non si può difendere la democrazia con strumenti fascisti », ha dichiarato a Panorama Marco Ramat, pretore a Firenze, segretario di Magistratura democratica, la corrente più avanzata della magistratura (650 aderenti su circa 6 mila magistrati). « La magistratura deve resistere alla tentazione di farsi influenzare dalle proposte di Fanfani sull’ordine pubblico ». Perplessità di ordine completamente diverso, ma anche più gravi e assillanti, nascono dal fatto che, proprio mentre si verificavano i tragici fatti di Empoli, altri magistrati, in procedimenti diversi, abbiano preso decisioni che lasciano perlomeno dubbiosi sulla autentica volontà di farla finita con le trame nere.
Note a tutti. In Toscana, per esempio, ha suscitato particolare stupore la notizia del rinvio sine die del processo contro i 119 ordinovisti ia corso davanti al tribunale di Roma. Il presidente Giuseppe Volpari ha stabilito che il processo non potrà essere ripreso « fino a che negli altri procedimenti penali attualmente pendenti a carico degli imputati sia pronunciata sentenza non più soggetta ad impugnazione ». « Se ne parlerà fra due secoli! », ha commentato il pubblico ministero Vittorio Occorsio, visto che i procedimenti pendenti a carico degli imputati sono ben 44.
« Se i fascisti di Arezzo fossero stati in galera non sarebbe successo niente. Noi di denunce ne abbiamo fatte tante. Sarebbe bastato che polizia e carabinieri li tenessero a bada e non saremmo arrivati a questo punto », dice Giorgio Bondi, segretario provinciale del partito comunista di Arezzo, convinto anche lui che « tra eversori e missini non esiste una linea di demarcazione ».
Ad Arezzo le attività dei fascisti erano note a tutti. I più attivi si riunivano in un bar accanto alla sede della federazione missina. Alcuni giravano armati, altri si erano comprati un cane lupo « da difesa », molti frequentavano palestre e il poligono di tiro (solo per pistole). Alla fine del 1973, quando furono costretti a chiudere la sede di Ordine Nuovo, in via Pescioni 43, i fascisti occuparono per qualche giorno i portici di corso Italia. Ci furono risse a non finire, minacce e violenze di ogni genere non si contarono più.
L’iniziativa più recente è stata quella di costituire un gruppo di « radioamatori ». Uno di questi era Luciano Franci, ma l’apparecchiatura più sofisticata sembra essere quella di Giovanni Rossi, un insospettabile professore di matematica e fisica dell’istituto tecnico di Arezzo, dichiaratamente missino. Considerato una specie di eminenza grigia, Rossi non è mai uscito allo scoperto, se non il 12 novembre 1973, quando, davanti al Supercinema di via Garibaldi, minacciò con una pistola Sergio Nenci, detto Cico, militante del partito comunista. Rossi naturalmente fu denunciato ma la cosa non ebbe seguito.
Amico di Franci e Gallatroni, Rossi era solito incontrarli passeggiando per il corso Italia. « La sua era una sezione peripatetica del Movimento sociale », dice un aderente di Lotta Continua. Adesso, ad Arezzo, Rossi si vede poco. Il giorno dopo l’uccisione dei due sottufficiali di pubblica sicurezza, il professore ha chiesto tre mesi di congedo a scuola. C’è chi dice che viaggiava molto per la Toscana, in particolare tra Empoli e Arezzo. Conosceva Tuti? Santillo non dice di no. Ammette che l’Antiterrorismo sta controllando ad Arezzo i movimenti di tre o quattro personaggi ritenuti finora insospettabili.
L’ingente quantità di armi che si teneva in casa, l’apparente rispettabilità ostentata per anni da Tuti, le coperture che sicuramente ha avuto nella fuga, la ferocia con cui ha sparato contro i tre uomini della pubblica sicurezza che erano andati ad arrestarlo, sono la prova da una parte che la cellula eversiva era bene organizzata e godeva di protezioni e dall’altra che Tuti era un anello importante della catena neofascista, pronto a tutto pur di non essere costretto a parlare. Santillo è convinto che Tuti sapeva un mucchio di cose e che probabilmente aveva da tempo responsabilità ben più gravi di quelle che di fatto gli si possono attribuire (la detenzione delle armi) o fortemente sospettare (la loro fornitura alle cellule eversive).
Una confidenza. Tuti era già conosciuto dalla polizia fin da quando viveva a Pisa e partecipava alle azioni squadristiche dei fascisti all’università. Poi si sposò e si stabilì a Empoli con tutte le carte in regola e la fama di impiegato modello, riuscendo persino a farsi assumere dal Comune a maggioranza comunista. Alla vigilia del delitto, incontrando un amico, gli confidò che forse non sarebbe mai più tornato a lavorare al suo tavolo da geometra. È stata questa circostanza, naturalmente, a far sorgere il sospetto che l’irreprensibile impiegato stesse per prendere una decisione che avrebbe cambiato radicalmente la sua vita.
Si saprà mai che cosa Tuti avrebbe potuto dire? C’è già chi prevede che non lo si ritroverà vivo e che farà la fine di Giancarlo Esposti, giovane fascista, radioamatore, ucciso, la primavera scorsa, in circostanze oscure a Pian del Rascino, vicino a Rieti, o di Armando Calzolari, il neofascista esperto nuotatore che « affogò » in una pozza d’acqua di pochi centimetri alla periferia di Roma nel gennaio 1970, o di Silvio Ferrari, un neofascista saltato in aria con la sua moto, pochi giorni prima della strage di Brescia: è ormai accertato che il suo non fu un incidente. Qualcuno aveva regolato la sua morte all’ora X, le 3,05 del 19 maggio 1974. Ci sarà un’ ora X anche per Tuti?
Panorama 06.02.1975
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