La confessione scritta sulla strage di Brescia – Sentenza ordinanza G.I. Zorzi 1993

Nel già citato verbale del 6.5.1985, Vincenzo Vinciguerra (che avrà poi modo di aggiungere numerosi altri “tocchi” al ritratto del Dr. Maggi, parlando, ad es., di sue visite “professionali” al Rognoni presso il carcere di Alessandria e, soprattutto, narrando una vicenda – durata anni – di importazione di armi e di esplosivo dalla Jugoslavia e della successiva collocazione e distribuzione in Italia di tale “innocua” mercanzia; vicenda che ha destato particolare interesse per la sottolineatura – da parte del Vinciguerra – delle caratteristiche di malleabilità e di micidiale potenzialità lesiva dell’esplosivo che ne fu oggetto, tanto da indurre a sottoporre siffatte indicazioni alla valutazione tecnica del perito balistico cui a suo tempo fu affidato l’arduo incarico di “ricostruire” l’ordigno esploso in Piazza della Loggia: il responso dell’esperto – v. Fald. “S”, doc. nr. 13 – non ha potuto che rimanere nel vago, per altro ripescando dagli abissi di una memoria fattasi ormai storica quel candelotto di esplosivo Vitezit di produzione Jugoslava, che venne rinvenuto nell’abitazione dell’ordinovista rognoniano Silvio Ferrari, deceduto in Piazza del Mercato il 19.5.74, e che in comune con l’esplosivo descritto dal Vinciguerra, se non altro, la conformazione – a candelotto, appunto – e l’avvolgimento in carta oleosa) ebbe anche a dichiarare quanto segue: “D.R. Sulla strage di Brescia in particolare sono in possesso di elementi conoscitivi che possono contribuire a far luce anche intorno ad aspetti organizzativi ed esecutivi. Segnalo che vi sono altre persone che hanno bagagli di conoscenze certamente superiori al mio. Dirò di più: so per certo che alcune persone sono in possesso di una dichiarazione scritta contenente la confessione firmata degli autori della strage. Pur non avendo mai visto tale dichiarazione, sono propenso a ritenere che essa esista realmente. Più che altro per la personalità di chi l’ha affermato, che indubbiamente è persona che sulla strage di Brescia possiede un bagaglio conoscitivo superiore al mio. Trattasi peraltro di persona che, per il suo passato e le sue scelte politiche, escludo possa allinearsi alle mie posizioni. Cosa invece questa che ritengo probabile per coloro che detengono quel documento scritto.
D.R. So per certo che il documento è stato rilasciato su richiesta di persone che avevano l’autorità morale per ottenerlo e che non avevano evidentemente approvato il fatto di Brescia.
D.R. La persona che mi ha rivelato l’esistenza dello scritto non mi ha indicato i nomi dei firmatari, né io glieli ho chiesti. Faccio peraltro presente che elementi conoscitivi si possono acquisire da varie fonti ed in vari momenti, dato che la verità sui fatti di strage nell’ambiente è nota ed è circolata e considerato che si tratta di un ambiente abbastanza ristretto.
D.R. Sono convinto che il documento in questione tuttora esista. Le mie conoscenze sul fatto di Brescia le ho acquisite parte durante la latitanza, iniziata ancor prima della strage, e parte durante la detenzione … Tornando alla confessione scritta sulla strage di Brescia, ho motivo di ritenere che la stessa dovesse fungere quasi come spada di Damocle nei confronti di chi la sottoscrisse, al fine di dissuadere costoro dal ripetere gesti di quel tipo. Tengo a precisare che si tratta di mia opinione …”

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Nei successivi interrogatori il Vinciguerra nulla più volle aggiungere in ordine a questo argomento, ed anzi, il 23.12.1985 nel carcere di Viterbo (Fald. “D/2”, Vol. VIII, f. 1441), si chiuse nel più totale silenzio per il timore che la sua posizione di soldato politico in guerra con lo Stato potesse o anche solo rischiasse d’essere confusa con quella di chi invece aveva imboccato la strada del pentimento o della dissociazione. Quel silenzio venne rotto anni dopo e non attraverso un verbale giudiziario: nell’ottobre del 1989 la Casa Editrice “Arnaud” pubblicava un volumetto intitolato “Ergastolo per la libertà – Verso la verità sulla strategia della tensione “, autore Vincenzo Vinciguerra. Il libro – acquisito agli atti (Fald. “H/l”. doc. nr. 2) – riservava una vera sorpresa: nel raccontare la conoscenza fatta a Porto Azzurro nell’estate del 1980 (dopo la strage del 2 agosto) con Fabrizio Zani (etichettato quale “esemplare della fauna neonazista”) e nel dare conto di conversazioni avute col predetto, l’autore ad un certo punto (pag.57) scrive: “Parla anche di altro, certamente più interessante, molto più interessante. Racconta, ad esempio, che gli autori della strage di Piazza della Loggia, a Brescia, hanno rilasciato una dichiarazione scritta e firmata a Mario Tuti, sulla loro responsabilità nell’episodio …”

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Hanno così – finalmente – un nome sia la fonte da cui scaturì l’informazione (e cioè la persona cui il Vinciguerra aveva attribuito il bagaglio di conoscenze in ordine alla strage superiore al suo e che aveva escluso potesse – per scelte politiche e per il proprio “passato” – allinearsi alle sue posizioni: trattandosi di Fabrizio Zani, raggiunto da mandato di cattura e tuttora imputato di concorso nella strage di Piazza della Loggia, le parole messe a verbale dal Vinciguerra nel maggio ‘85 vengono chiaramente a caricarsi di più intensi significati), sia il misterioso personaggio dotato di “autorità morale” tale da consentire non solo di chiedere, ma anche di ottenere il rilascio di quel tipo di dichiarazione scritta e sottoscritta.

La duplice rivelazione contenuta nel libro è stata poi confermata in sede di interrogatorio dal Vinciguerra (Fald. “D/3”, Vol. VII, f. 969 retro), senza aggiungere alcunché, a parte la personale opinione che quella dichiarazione sia stata “rilasciata al Tuti nel periodo che precedette l’inizio della sua carcerazione” e che il tutto possa essere avvenuto nella forma di do ut des, e cioè con un rilascio – anche da parte del Tuti di qualcosa di suo”. A fronte di tutto ciò, ovviamente, si imponeva di interpellare al riguardo la “fonte” (nonché imputato) Zani e l’autorevole “detentore” del documento, Tuti. Entrambi (come era loro diritto) si sono però avvalsi della facoltà di non rispondere (così restando all’oscuro della ragione che aveva indotto questo giudice a tornare da loro dopo tanto tempo).

Nasceva, a quel punto, l’idea di fare almeno un tentativo per rintracciare e acquisire il singolare documento, nella ragionevole ipotesi di una sua effettiva esistenza (e pur nella consapevolezza di andare alla ricerca del classico ago nascosto nel pagliaio). Ragionevole ipotesi – si è detto – perché vari sono gli elementi che concorrono (e concorrevano) a renderla tale. Già vi ha fatto cenno il P.M. nella requisitoria:
1) la difficoltà di credere che un personaggio come Vincenzo Vinciguerra – per il fatto stesso d’essere, sino ad ora e chissà ancora per quanto tempo, l’unico autore confesso di un fatto di strage, per il tipo di battaglia che sta combattendo in assoluta solitudine, per il livello di autorevolezza cui il suo complessivo percorso politico ha finito per consegnarlo e per la conseguente necessità di evitare accuratamente cadute di stile che facciano scendere di molto quel livello e compromettano una battaglia che solo nella verità (quando egli – finalmente – si deciderà a dirla tutta) può avere la sua carta vincente – si sia lasciato andare ad un estro della fantasia e si sia inventato una cosa del genere, riguardante – per di più – soggetti pronti a smentirlo velenosamente (Come è certo che sarebbe accaduto ove i due interessati si fossero resi disponibili ad un minimo di dialettica);
2) la difficoltà altresì di credere – per le medesime ragioni – che il Vinciguerra si sarebbe azzardato a fare un qualunque cenno alla confidenza ricevuta da parte dello Zani se, personalmente, non vi avesse attribuito il benché minimo credito e – come scrive il P.M. – “dentro di sé non avesse sottoposto a positivo vaglio critico la cosa”;
3) gli indizi di reità raccolti – come meglio si vedrà in seguito – a carico dello Zani e la veste di “fonte” bene informata e estremamente qualificata che, in tale ottica, il predetto verrebbe conseguentemente ad assumere (in perfetta sintonia con l’attribuzione – operata dal Vinciguerra – di un bagaglio di conoscenze superiore al suo);
4) l’intreccio che, storicamente e processualmente, è più volte venuto a crearsi fra i destini dello Zani e del Tuti, i quali, ad es., come giustamente ricorda il P.M., si sono trovati accomunati nella vicenda “Quex” (il foglio della destra carceraria che, sul numero diffuso nel marzo del 1981, pubblicò una sorta di condanna a morte di Ermanno Buzzi, entro la apposita rubrica “Ecrasez l’infame”; condanna eseguita un mese dopo, il 13 aprile, nel carcere di Novara – alla prima occasione utile – dal comandante militare del MPON, Pierluigi Concutelli, e dal capo del gruppo ordinovista toscano FNR, Mario Tuti), e in quella dell’omicidio del “traditore” Mauro Mennucci (luglio 1982), delitto che è costato allo Zani l’ergastolo che attualmente sta scontando (e non sarà, magari, che anche a quel meccanismo di do ut des ipotizzato dal Vinciguerra sono da ricondurre, da un lato, l’uccisione del Mennucci, “reo” di aver favorito la cattura del Tuti in Francia, e, dall’altro, quella del Buzzi, reo d’essersi preso una condanna all’ergastolo – in primo grado – per la strage di Brescia e di avere dato qualche segno di preoccupante “irrequietezza” nell’attesa del giudizio d’appello?);
5) il singolare ed anzi straordinario parallelismo, fattuale e probatorio, che viene a stabilirsi tra la vicenda della confessione scritta riferita dal Vinciguerra ed un’altra vicenda -avente anch’essa ad oggetto una confessione scritta – verificatasi nella primavera del ‘74, in Toscana, all’interno del medesimo ambiente (questa vicenda merita un suo spazio e impone quindi di uscire dalla “gabbia” della presente elencazione numerica).

In fatto si tratta di ciò (v. sent. Corte d’Assise di Firenze in data 15.12.1987, riguardante la mancata strage di Vaiano del 21.4.74, la vicenda “Fonti del Clitumno” e altri fatti: in Fald. “N/1”, Vol. IV, doc. nr. 6): dopo l’attentato (facente parte di una delle cosiddette “triplette” di Ordine Nero”) alla Casa del Popolo di Moiano del 23.4.74, si era sparsa la voce nell’entourage che Andrea Brogi (uno dei membri del gruppo, condannato con la citata sentenza proprio per la mancata strage di Vaiano) fosse divenuto un confidente della polizia. La conseguenza fu l’immediata cacciata del Brogi e della sua fidanzata dell’epoca, Daniela Sanna (che alcuni anni dopo diventerà la moglie di Gianfranco Ferro, complice del Concutelli nell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio), dalla casa di Angusto Cauchi (uno dei capi di Ordine Nero: v. sent. 14.2.1984 della Corte d’Assise d’Appello di Bologna, in Fald. “N/1”. Vol. IV, doc. nr. 2; è notizia recente quella dell’avvenuto arresto del predetto in Argentina, dopo 18 anni di latitanza) a Verniana di Monte San Savino, prov. di Arezzo (ove la sera del 22 aprile ‘74 si svolse in riunione di cui – guarda caso – ebbe a parlare Ermanno Buzzi nell’interrogatorio reso il 28.7.1975: Fald. “U”, fase nr. 3, f. 94 retro); casa nella quale erano ospitati da qualche tempo. I due reietti trovarono in seguito alloggio presso tale famiglia Pecci o Pocci abitante in località Pietriccio di Siena. Lì, una sera, successe che tre individui sbucarono fuori da una siepe e bloccarono il Brogi e la Sanna. I tre erano: Augusto Cauchi, Luca Donati e Luciano Franci (coimputato del Tuti nel processo “Italicus”; condannato assieme al Tuti per una serie di attentati ferroviari verificatisi in Toscana tra la fine del 1974 e gli inizi del 1975; presente anch’egli nel “cortile della morte” del carcere di Novara al momento dello strangolamento del Buzzi). I predetti fecero salire la coppia Brogi-Sanna su una vettura e si allontanarono di alcuni chilometri nella campagna circostante. Lungo il tragitto la macchina fu fermata dalla polizia che fece una contravvenzione. Ripresa la marcia, fu percorso qualche altro chilometro. A quel punto, fermata la vettura, il Brogi con minacce varie fu costretto a scrivere su un pezzo di carta una sorta di confessione della sua responsabilità (peraltro effettiva) in ordine agli attentati messi a segno da Ordine Nero in Toscana e dintorni.

La vicenda (significativamente “parallela” a quella svelata dal Vinciguerra) è stata rievocata dallo stesso Brogi e risulta compiutamente provata: ciò in quanto il racconto di costui ha trovato riscontro esterno non solo e non tanto nelle conformi dichiarazioni della Sanna, quanto (come si evince dalla menzionata sentenza dell’Assise di Firenze ed è puntualizzato a f. 1256 retro, Fald. “D/3”, Vol. IX) nelle dichiarazioni di persone che non avevano certo interesse alcuno a confermare l’attendibilità del Brogi, quali Massimo Batani, in una qualche misura lo stesso Luca Donati e, soprattutto, il prof Giovanni Rossi, che addirittura è arrivato ad ammettere di avere appreso in carcere da uno dei protagonisti dell’episodio, Franci, che una certa sera il Cauchi aveva fatto scrivere al Brogi su un foglio di carta che il medesimo era colpevole “di tutti gli attentati accaduti in Toscana”. Terminata, dunque, la illustrazione delle ragioni che l’hanno ispirato, va ora dato conto del tentativo – purtroppo fallito, come era prevedibile) – di rintraccio della “confessione scritta”.

Si è innanzitutto esperita (a vuoto) una indagine presso i vari istituti bancari di Empoli, volta ad accertare se la madre di Tuti fosse per caso intestataria di qualche cassetta di sicurezza. Al contempo sono state sottoposte ad intercettazione le utenze della stessa Sig.ra Tuti e di Luciano Franci (che il destino ha fatto sì venisse a risiedere – cinque o sei anni fa – in quel di Brione); intercettazione poi estesa ad altre utenze dell’entourage bresciano del Franci (compresa quella di un certo bar gestito da Mario Labolani, personaggio che risulta avere intrattenuto rapporti anche con il noto Marco Affatigato: v. Fald. “B”, Vol. XXVI, ff. 4181-4182). In costanza delle operazioni di ascolto, si è proceduto a ripetuti interrogatori (ex art. 348 bis c.p.p.1930) del Franci, il quale ha naturalmente sostenuto di ignorare se sia mai esistita una sorta di confessione scritta degli autori della strage di Brescia, di non averne mai sentito parlare e di ritenere comunque la cosa “alquanto inverosimile”; poi, messo di fronte a più stringenti contestazioni ed al richiamo alla analoga vicenda Brogi che lo vide direttamente coinvolto, ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. Delle varie conversazioni telefoniche intercettate una sola – intercorsa alle ore 20.47 dell’11.12.1992 tra il Franci medesimo e la sorella Giovanna (res. a Roma) – ha suscitato interesse, sia perché effettuata nella stessa data del primo interrogatorio del predetto, sia perché, in riferimento a tale atto istruttorio, i due interlocutori accennarono al fatto che un certo Agostino aveva consultato delle carte. Riconvocato il Franci, si è scoperto che l’Agostino menzionato nella telefonata altri non era che un cartomante, in arte “Mago Aretinus”, con studio in Arezzo, interpellato – come già più volte era avvenuto in passato – dalla sorella Giovanna per sapere dai tarocchi se il Luciano (che tanti anni prima era stato collega di lavoro dell’Agostino – non come mago – ma quale dipendente di una fabbrica di bambole) dovesse temere o meno qualcosa dalla citazione che aveva ricevuto. Disposta in tempo reale (con trasmissione via fax del relativo decreto) la perquisizione dello studio e dell’abitazione del “Mago Aretinus” (identificato in Chiasserini Agostino), la stessa ha avuto esito negativo. Per parte sua, il “Mago”, sentito a s.i.t. per incarico di questo G. I., ha confermato d’essere da anni il cartomante di fiducia della sorella del Franci e di essere stato interpellato dalla stessa, in tale veste; anche qualche tempo addietro, in riferimento ad una nuova “chiamata” del Luciano da parte dei giudici (Fald. “B”, Vol. XXVII, ff. 4449-4450).
La “confessione scritta”, dunque, se ancora esiste (perché è esistita), si trova nascosta da qualche parte.